Cultura e Società Sport

Fenomenologia di Roger Federer

Non è un lutto, ma a giudicare dalle lacrime dei migliaia di tifosi presenti nella O2 Arena di Londra e da tutte le altre sparse per il mondo, lo scorso 25 settembre il mondo dello sport in generale e del tennis in particolare hanno salutato una parte di sé. 

Sì, perché soprattutto per gli esteti della tecnica, la migliore parte di questa disciplina è stata per quasi 25 anni un tutt’uno coi gesti bianchi del tennista di Basilea, che dal 1998 hanno illuminato i rettangoli di gioco con movenze di una scorrevolezza che rasentava la perfezione, dalla pulizia tecnica inimitata e inimitabile, eppure anelata almeno una volta da chiunque, anche nel nostro piccolo, abbia provato a brandire una racchetta da 90 pollici quadrati ormai inusitata.

Tanti sono quelli che si sono avvicinati a questo sport grazie al maestro svizzero, che già nel 2001 si era addossato la pressione del predestinato dopo che, a sorpresa, eliminò l’allora tennista più vincente della storia – Pete Sampras – sui prati di Wimbledon, quando l’americano era campione in carica e favoritissimo per l’ottavo titolo.

Da quel momento in poi, torneo dopo torneo e titolo dopo titolo, l’appellativo di GOAT (Greatest Of All Time) è diventato via via più inflazionato negli articoli di tennis, finché nel 2009, ancora sul manto erboso del Centrale di Church Road, quel quasi 28enne svizzero fugò ogni dubbio superando per numero di tornei dello Slam il record di Sampras (15-14 il parziale dopo Wimbledon 2019). 

Ovviamente fra i quasi 90 milioni di tennisti nel mondo  c’è stato chi non è rimasto a guardare, tant’è che se oggi è più che mai in discussione l’etichetta di Numero 1 di ogni epoca, è perché i suoi più forti avversari si sono adeguati e migliorati per tenere testa al livello stellare che Federer stava esprimendo. Migliorati a tal punto che il record di 20 tornei dello Slam raggiunto da Roger nel 2018 con il suo ultimo acuto, è oggi crollato sia per mano di Novak Djokovic (21) che di Rafael Nadal (22 e attuale leader), i quali hanno completato una rincorsa forsennata facendo anche leva sul vantaggio anagrafico rispettivamente di sei e cinque anni nei confronti del campione svizzero.

Al di là dei responsi dei singoli tornei tuttavia, in Roger Federer emerge molto di più di quanto non scaturisca dalla sua racchetta: affiora evidente in lui un lato umano imprescindibile che, immancabilmente, rappresenta una supplementare chiave di lettura di svariati risultati della sua carriera. Questo perché, semplicemente, è stato il campione emotivamente più fragile. Fragile quindi amato, anzi il più amato. Sensibile eppur consapevole di esserlo e dunque volenteroso di lavorare per convivere con questo suo lato tremendamente umano che, rispetto agli altri campioni, lo ha, in un certo senso, penalizzato.

Eppure il fenomeno Federer non si è certo arreso alle sue paure e infatti è andato reinventandosi più e più volte nel corso della sua carriera, sia tatticamente, sia tecnicamente che mentalmente, non mancandogli la saggezza necessaria per leggersi con una fredda lucidità, scovando i suoi limiti e levigandoli quanto più gli è stato possibile: le reazioni isteriche di inizio carriera hanno lasciato spazio alla calma olimpica del giocatore maturo, anzi del giocatore maturato, mentre l’atteggiamento vanesio di chi sa di esser dotato di smisurato talento è stato messo da parte, al punto da divenire poi lui uno degli atleti che si allenavano maggiormente in termini di ore giornaliere, al contrario di ciò che gli appassionati potessero pensare.

Si parla spesso di talenti sprecati, ebbene lui era un talento che, a dispetto della fortuna e del merito di esserlo, ha lavorato duramente e che ha compreso che al talento andava affiancato tanto sacrificio, pena l’impossibilità di restare continuativamente ai massimi livelli. Ha saputo e voluto trasformarsi, da ragazzo scapestrato “spaccaracchette” ad atleta calibrato e professionale; da giovane giramondo cacciatore di trofei a gran filantropo specialmente verso la “sua” Africa (mamma Lynette è di Città del Capo), tanto più che è stato il primo, fra i cosiddetti Fab Four, a spendersi per la beneficenza, attraverso la sua fondazione in Sudafrica, per poi esser (giustamente) imitato anche da Nadal, Djokovic, Murray ed altri.

Parlando correntemente inglese, tedesco, francese e svedese (più qualcosina di italiano) è diventato subito popolare in tanti Paesi, vuoi per la familiarità nell’idioma delle città ospitanti, vuoi anche per lo stile sciolto e naturale nelle interviste a bordocampo e in conferenza stampa, nelle quali non ha mai dato l’idea di essere ignorante o intrattabile.

Tornando ai numeri, non va comunque sminuito il fatto di essere stato capace di frantumare ogni record (ATP Finals, Slam, titoli vinti, settimane da numero 1 in classifica, mai ritirato durante un match, ecc.), il che ha costretto gli avversari a prendergli le misure in qualche modo, a studiarlo, inseguirlo e infine superarlo (almeno nel computo slam, ma in svariati altri record no). 

Rispetto ai fisici inscalfibili di chi ora è ai vertici, non ha mai dato l’idea di essere una macchina spaventosamente programmata per vincere, né si mostrava maniacale fino al ridicolo tramite  scaramanzie o strane alchimie o rituali, né in campo e men che meno fuori di esso, dove anzi è un riservato padre di quattro bimbi e marito di una donna che non ha trovato sulle copertine, bensì che ha conosciuto come compagna di doppio all’età di vent’anni e che non ha più lasciato, né smesso di ringraziare per il continuo supporto.

Non è dunque strano che abbia vinto per 19 anni consecutivi (altro record) il premio di giocatore più amato dal pubblico e dai colleghi, primato strabiliante anche in ragione del fatto che, solitamente, chi vince per così tante stagioni attira su di sé anche un pizzico di invidia.

Sicuramente, nello stile di gioco, è stato anche lo spartiacque fra l’era del tennis d’altri tempi, vario e meno fisico, e il tennis disumano di oggi (vedi i 19 set in 4 partite di Alcaraz agli US Open da lui conquistati quest’anno), con l’ulteriore merito di aver dato autentiche lezioni di tecnica a tutti, fino all’anno scorso, a quarant’anni suonati: nella sua carriera infatti ha trovato al di là della rete, come avversari in match ufficiali, una forbice generazionale amplissima di tennisti, se si tiene conto dei nomi del più giovane affrontato (Aliassime, un 2000) e del più vecchio (Pozzi, un ’65 affrontato nel 1998), dando spesso vita a scontri di stile che ormai saranno sempre più rari col gioco moderno che tende via via all’omologazione scientificizzata del gesto tecnico, quasi come nel ciclismo recente.

Le istantanee che lo ritraggono con espressione distesa anche durante dritti impattati a 140Km/h sono la rappresentazione della sua ineguagliabile disinvoltura in questo sport e un altro suo marchio di unicità assieme all’assenza pressoché totale di versi da sforzo, perché pareva davvero librarsi nell’aria con silenziosa e rispettosa leggerezza. 

Chiunque l’abbia visto giocare non dimenticherà quel suo rovescio a una mano misurato, a volte ballerino ma spontaneo, la sua paura di perdere compensata però dal piacere di volerci provare, con involontaria eleganza. Non si dimenticherà di quella sua umanità che, sola, un pizzico lo avvicinava a noi. Non scorderà quell’armonia sospesa tra genio e regolatezza, la disinvoltura e fluidità nel portare i colpi, quel suo stile che, semplicemente, abbellisce il tennis e invita a giocarci.

Davide Girardi

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