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L(’)otto marzo: non si tratta delle mimose

In passato, l’8 marzo per me era una di quelle vuote ricorrenze annuali che non vedi l’ora di lasciarti alle spalle. A scuola, gli insegnanti insistevano perché i nostri compagni di classe facessero gli auguri a noi che eravamo bambine o ragazze. Alcuni di loro si opponevano fieramente, altri adempivano al compito piú o meno di buon grado. Su tutti i loro visi, peró, potevi leggere la confusione. A che scopo tutto ció? Perché festeggiare le femmine? Al di lá della lusinga, ce lo chiedevamo anche noi. Normalmente il mondo dei grandi ci descriveva le donne come belle ma superficiali, piú deboli degli uomini, prive di senso pratico a differenza di questi ultimi e pure abbastanza fastidiose. Per un giorno all’anno, peró, comparivano mimose dappertutto, perfino in televisione, e ci veniva ripetuto quanto queste creature “dolcemente complicate” e un po’ inette fossero anche degli esseri speciali, da celebrare e riverire.

La mia generazione è cresciuta con la vulgata del cosiddetto post-femminismo, ossia l’idea che nell’Occidente liberale le donne siano considerate pari agli uomini, eccetto per alcune caratteristiche essenzialmente legate al loro genere.

Possiamo studiare, lavorare e disporre del nostro corpo, tanto che le piú smaliziate di noi, che sono sempre di piú, approfittano dell’irresistibile potere sessuale che esercitano sugli uomini per ottenere immeritati vantaggi. Insomma, i rapporti di potere sembrano essersi ribaltati, tanto da mettere in crisi la mascolinitá stessa. In un contesto simile, il femminismo è un relitto ideologico di un passato remoto che ha sí espresso rivendicazioni giuste a suo tempo, ma ha ormai esaurito la sua funzione. 

Di conseguenza, la giornata internazionale della donna è stata fortemente depoliticizzata nel nostro paese cosí come in molti altri, trasformata in una ricorrenza identitaria senza una particolare valenza sociale. In realtá, l’8 marzo affonda le sue radici nella dimensione femminile della lotta di classe. Fu infatti istituito nel contesto della III Internazionale Comunista del 1921 come ‘Giornata internazionale dell’operaia’ a ricordo del contributo delle lavoratrici alla rivoluzione anti-zarista e, piú in generale, al movimento socialista nel mondo. Nel 1977 la ricorrenza fu adottata dall’ONU e prontamente spogliata della sua connotazione anti-capitalista, benché tracce del sodalizio tra socialismo e femminismo sopravvivano nel mondo anglofono, in slogan tuttora popolari come “Bread and Roses”, e soprattutto in America Latina. L’8 marzo dovrebbe essere dunque un’occasione per rivendicare i diritti ottenuti attraverso piú di un secolo di lotte femministe, ma soprattutto per guardare al futuro.

Si ripete spesso che il femminismo non è un monolite. Effettivamente, analisi politiche, economiche, sociali e culturali ispirate da tesi e valori diversi e applicate a diversi contesti storici e geografici hanno prodotto orientamenti di pensiero differenti, talvolta radicalmente opposti. Questi, tuttavia, convergono nella critica al concetto di genere. Donne, come scriveva Simone de Beauvoir, non si nasce ma si diventa. La mascolinitá e la femminilitá sono dunque categorie a cui veniamo assegnati alla nascita, sulla base delle nostre caratteristiche fisiche. Esse esistono in opposizione binaria fra loro e hanno senso solo se riferite l’una all’altra. Criticare il concetto di genere come costrutto sociale significa liberare gli individui da determinate aspettative sul loro conto, ma soprattutto mettere in discussione le disuguaglianze sociali che derivano da queste strutture.

In Italia, dicevamo, si parla di paritá di genere come un traguardo pressoché raggiunto. Addirittura, sembra star prendendo piede nel dibattito pubblico una visione del femminismo contemporaneo come uno zombie, un’ideologia rianimata a forza da alcune streghe da tastiera che attaccano ferocemente gli uomini digitando anatemi dal significato oscuro come mansplaining, catcalling e gender pay gap. Sarebbe questo il “femminismo mediatico”: un culto di estremiste che odiano gli uomini in quanto tali, specialmente quelli che si macchiano dell’aggravante di essere bianchi ed eterosessuali. Oltretutto, si tende generalmente a sorvolare sul contributo del movimento femminista nella storia delle lotte per i diritti delle donne italiane, rafforzando l’idea che il femminismo sia stato una fonte di rivendicazione, ma anche una forza socio-politica di per sé improduttiva.

A ben vedere, peró, questi diritti che ci sarebbero stati erogati a piene mani non sono poi cosí consolidati, né sono stati concessi tanto generosamente. Ne sa qualcosa Franca Viola, che nel 1966 dovette ingaggiare una battaglia legale e culturale con lo stato italiano per sottrarsi al matrimonio con il suo stupratore, che al tempo era prassi comune nei casi di violenza sessuale ed estingueva il reato. Lo stupro sarebbe stato riconosciuto dalla legge italiana come reato contro la persona solo nel 1996. Un altro vergognoso lascito patriarcale, le disposizioni in materia di delitto d’onore, scomparvero dal nostro ordinamento legale solo nel 1981. Il diritto all’aborto, sancito dalla legge 194 del 1978 è ancora oggi di difficile accesso a causa dell’alta concentrazione di obiettori di coscienza tra i medici.

Discriminazioni consistenti persistono anche nel mondo del lavoro, dove le donne sono maggiormente colpite dal precariato e retribuite in maniera inferiore. Anche la pandemia attualmente in corso ha avuto un impatto sproporzionato sulle lavoratrici, giá penalizzate dalla mole di lavoro domestico e riproduttivo che svolgono come mogli e madri, fondamentale al sistema economico ma tradizionalmente non riconosciuto. 

Inoltre, nonostante le conquiste sul piano legale, la nostra cultura è ancora profondamente patriarcale e misogina. Non è un segreto, ad esempio, l’alta incidenza di femminicidi, ossia dell’omicidio di donne per mano dei propri ex, attuali o aspiranti partner. Il termine viene talvolta accusato di sessismo, ma esprime perfettamente l’anomalia degli omicidi di donne, che resta stabile o addirittura cresce, mentre secondo l’Istat il numero delle vittime maschili risulta in calo dal 1992. La differenza fondamentale sta nell’identitá dei carnefici: gli uomini vengono uccisi principalmente da sconosciuti, le donne da amici o partner. Non è un segreto nemmeno la pratica diffusa di abuso sessuale, peggiorata drasticamente con l’accesso di massa ai canali virtuali. Il revenge porn e lo stupro virtuale, fenomeni messi in luce da alcune investigazioni giornalistiche nell’ambito dei gruppi Telegram, sono soltanto l’ultima frontiera di una cultura di oggettificazione del corpo femminile, soprattutto quello di ragazzine giovanissime. Il quadro della situazione è impietoso: viviamo in una societá in cui le donne godono in modo ridotto dei piú fondamentali diritti umani come quello alla vita e all’integritá fisica.

Per questo l’8 marzo non puó continuare ad essere trattato come un’occasione per regalare dei fiori o professare il proprio amore per le donne, soprattutto se ció riguarda solo le donne a cui siamo legati o quelle che ci attraggono fisicamente. Né puó una sola giornata esaurire l’intera riflessione femminista sulle diseguaglianze di genere presenti nella nostra societá. Personalmente, spero che questa giornata diventi sempre piú un’occasione per informarsi, avventurandosi al di lá delle bolle social in cui ci sentiamo a nostro agio, per un confronto piú produttivo che porti a progressi sociali e culturali di cui c’è, purtroppo, un gran bisogno.

Francesca Di Fazio

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