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Lo spazio pubblico come vuoto da RIabitare

Agorà greca, foro romano e piazza medievale hanno costituito i luoghi di incontro sociale, politico e  amministrativo per eccellenza che noi tutti conosciamo e di cui almeno una volta abbiamo letto tra  le righe dei libri di scuola.  

Lo spazio pubblico è teatro delle vicende umane, luogo di incontro e condivisione per i cittadini,  spazio interstiziale tra le geometrie dell’abitare e sito in cui gli eventi accadono.  Ma quale è lo spazio pubblico dei giorni nostri?  

Con la nascita del Movimento moderno, periodo architettonico che si colloca tra la Prima e la  Seconda guerra mondiale e avente come obiettivo principale il rinnovamento dell’architettura, lo  spazio pubblico ha perso di qualità e importanza.  

In questa fase storica gli architetti e i progettisti si sono concentrati maggiormente sul soddisfare la  cospicua domanda abitativa derivante dalla distruzione della guerra, facendo sì che il vuoto presente  tra i “grandi” palazzi, ossia il potenziale spazio pubblico, diventasse una questione secondaria e  marginale.  

A tal proposito risulta opportuno citare alcuni studi e piani urbanistici degli anni Venti e Trenta del Novecento che Matteo Moscatelli, architetto e docente al Politecnico di Milano, cita nell’articolo “Ripensare lo  spazio pubblico” pubblicato l’8 agosto 2021. 

Tra questi ricordiamo la Ville Contemporaine (1922) e la Ville Radieuse (1931) dell’architetto franco svizzero Le Corbusier. Entrambe costituiscono città utopiche non realizzate, in cui la quasi totale attenzione dedicata alla struttura tipologica degli edifici, inevitabilmente, trascura i vuoti presenti  tra di essi, ovvero, quegli spazi che dovrebbero essere destinati ad essere luogo di incontro per la comunità e che invece risultano essere privi di una chiara strategia funzionale.  

E ancora, gli studi e progetti dell’architetto tedesco Walter Gropius tra i quali ricordiamo Gropiusstadt, costruita tra il 1963 e il 1973. Si tratta di un quartiere che si trova a sud della città di Berlino e che ospita più di 50.000 persone.  L’area è costellata da grattacieli di venti o trenta piani che lasciano poco spazio ai luoghi di  aggregazione. Anche in questo caso, l’architetto ha messo in primo piano i vantaggi economici  derivanti dagli edifici tralasciando quei vuoti interstiziali risultanti dalla disposizione degli stessi.  

Una prima rilevante opposizione a questo modo di concepire lo spazio pubblico avviene nel 1951,  all’Ottavo CIAM (Congresso internazionale di architettura moderna) di Hoddesdon, durante il quale  Josep Lluis Ser afferma che la città è nata nei suoi spazi pubblici, che questi ne rappresentano il cuore, e che il compito di chi progetta dovrebbe limitarsi a individuarne la più adatta collocazione,  affidando ai cittadini la possibilità di deciderne le linee di sviluppo.  

Ed è proprio a partire da tale considerazione che nel corso dei decenni successivi è stata posta una  maggiore attenzione ai luoghi di incontro sociale, anche se ciò nonostante, gli interventi degli anni  Sessanta e Settanta non hanno dato i risultati sperati.  

Infatti, ancora oggi l’Italia è costellata da quei Non Luoghi che Marc Augé definisce come territori  dell’anonimato, scenari dell’incrocio e non dell’incontro, mondi in cui l’assenza di identità,  relazione e storia portano alla perdita del senso di appartenenza ai luoghi. Come ad esempio i tanti  borghi abbandonati dell’Italia Centro-meridionale e le periferie che costellano le nostre città.  

Emerge dunque l’importanza dello spazio pubblico come luogo di incontro di una comunità, come  luogo di condivisione e come spazio in cui maggiormente si manifesta l’appartenenza ad una  collettività. Tale valore è emerso chiaramente durante la pandemia Covid-19, in quanto il completo  e forzato distacco dai luoghi di incontro fisico ha fatto sì che ci rendessimo conto di quanto questi  spazi siano in realtà fondamentali per l’uomo. Questa obbligata distanza sociale ha generato nuovi  modi di vivere la città, come ad esempio l’appropriazione di parcheggi e zone di sosta da parte di bar  e ristoranti ha fatto sì che le strade diventassero un luogo di incontro per la popolazione.  

Chissà quante altre opportunità le nostre città celano tra i grandi palazzi in calcestruzzo delle  periferie e le strade a tre corsie che attraversano i centri urbani.  

Per trasformare questi vuoti in spazi abitabili è necessario riportare la tematica della qualità  pubblica al centro delle politiche urbane e promuovere progetti che mirano alla costituzione di una  città sempre più inclusiva e sostenibile.  

Inclusiva mediante la rimozione di barriere di carattere fisico e culturale e sostenibile attraverso la  riconversione di aree abbandonate e sotto utilizzate.  

In tal senso, emblematici sono i progetti riportati nell’articolo precedentemente citato:  il primo è il MFO Park di Zurigo progettato da Burckhardt+Partner in collaborazione con  Raderschall nel 2001-2002 dove un tempo vi era la Maschinenfabrik Oerlikon. Si tratta di un parco caratterizzato da una struttura in acciaio che è diventato un luogo di incontro per la comunità in quanto ospita diversi eventi culturali, cinema all’aperto, manifestazioni collettive, spettacoli teatrali  e aree gioco. 

Il secondo è la High Line di New York, progettata tra il 2006 e il 2015 dagli architetti Diller  Scofidio+Renfro, costituita da un parco che si sviluppa lungo una ferrovia sopraelevata dismessa e  caratterizzata da zone selvatiche, aree coltivate e luoghi per la socialità.  

Ripensare questi vuoti risulta dunque fondamentale, non solo per ridare alle città quegli spazi  che nel tempo sono andati perduti, ma anche per garantire a chi vi abita uno spazio di incontro e  condivisione verso un’ottica di città inclusiva e sostenibile.  

Eleonora Todeschi

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