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Dall’Alto Adige alla Svezia, storie di grandi opere e comunità locali

Un campanile in mezzo ad un lago. Senza più la chiesa, senza il sagrato, senza la piazza. Non c’è paese né persone per cui suonare. Al loro posto, una distesa d’acqua e fiumane di turisti e appassionati di sport. Di sicuro la gente non manca, ma si può parlare di comunità? 

Ci troviamo al confine del Trentino-Alto Adige con l’Austria e la vicenda è quella di Curon, il paese sommerso (dal titolo del documentario di Lembergh e Stecher e l’omonimo libro, da cui provengono le testimonianze virgolettate disseminate nel testo). 

La storia di questo luogo-cartolina ha inizio in epoca fascista, precisamente nell’ambito del piano di aumento della produzione nazionale di energia elettrica. La costruzione di una grande diga che unifica il lago di Resia e il lago di Mezzo è responsabile dell’innalzamento del livello dell’acqua a 22 metri, abbastanza da sommergere 523 ettari di terreno coltivato e 163 case dell’antico borgo. 

Curon Vecchia è stata fatta esplodere con la nitroglicerina, usata a questo scopo per la prima volta in Italia. Il campanile è testimone muto dell’accaduto. Le campane sono state rimosse il 18 luglio 1950, a una settimana di distanza dal loro ultimo rintocco, quando le case e la chiesa erano già state demolite. La torre campanaria è stata preservata perché di epoca romanica e protetta dall’articolo 9 della Costituzione Italiana e dalla Soprintendenza per i Beni Culturali. Oggi il campanile è un’attrazione turistica, circa un milione di persone lo visitano ogni anno; la sua presenza ha reso unico il lago di Resia. Ciononostante si erge dalle acque e ricorda chi ha dovuto abbandonare il proprio paese in favore del progresso.

In Alto Adige lo sfruttamento intensivo dell’energia idroelettrica coincide con il ventennio fascista e il dopoguerra, quando i grandi gruppi industriali investono per la modernizzazione del paese. Parallelamente, la realizzazione di queste infrastrutture diventa uno strumento di potere politico per italianizzare la regione sudtirolese, difficile terra di confini. La madrelingua è messa al bando da un giorno all’altro, il tedesco è vietato nelle scuole così come a messa. L’italiano si appropria, senza curarsi di mantenere il loro significato, dei nomi delle valli e dei laghi, persino i cognomi vengono tradotti. 

Nel 1939 l’azienda Montecatini presentò il progetto per la costruzione della diga. In mancanza di rappresentanza politica in zona, il compito di informare la popolazione locale venne affidato a un commissario. Un annuncio scritto in italiano rimane affisso in paese per 15 giorni, al termine dei quali la comunità si ritiene avvisata e il silenzio viene interpretato come un’assenza di obiezioni. La decisione di distruggere i paesi di Curon e – parzialmente – Resia viene perpetrata senza che i loro abitanti ne fossero realmente al corrente. Solo nel 1940, quando arrivarono i primi espropri per pubblica utilità, la popolazione iniziò a capire.

I paesani sono messi davanti alla scelta di restare o partire, rimasta nella storia come provvedimento delle “opzioni”. Lo scenario non si prospettava distruttivo agli occhi di tutti, tant’è che delle circa 120 famiglie, una trentina decise di rimanere. 

L’impresa che si occupò dei lavori fu un inquilino scomodo sul posto. Le prime proteste ebbero luogo quando venne comunicata la necessità di rimuovere le lapidi di marmo dal cimitero, che sarebbe stato presto coperto da una colata di calcestruzzo. Nel 1949 non vennero nemmeno avvisati della prima prova di sbarramento, che portò l’acqua del lago a ridosso del paese, allagando le case più a valle. Le case vennero svuotate giorno dopo giorno per essere demolite. Tuttavia ci fu chi sentiva così forte il senso di appartenenza per la valle e per quelle montagne, che decise di resistere e restare qui

Per coloro che non trovarono (o non scelsero) altra soluzione, la Montecatini costruì un villaggio di baracche, dove le famiglie potevano trovare rifugio, non senza enormi difficoltà dovute al freddo e alla dimensione ridotta dei fabbricati. L’insediamento si trovava all’imbocco della Vallelunga, poco distante da dove poi sarebbe sorto il nuovo paese.

“Alcuni, che non credevano che l’avrebbero riempito davvero (..). E invece l’acqua continuò a salire sempre di più.” I primi a scomparire furono i grandi prati di foraggio per gli animali. Già questi primi effetti obbligavano a dover scegliere tra un futuro incerto o un posto di lavoro in quello stesso cantiere che si apprestava a fagocitare il paese. Gli operai coinvolti erano all’incirca settemila, perlopiù maestranze di origine italiana. “La popolazione locale ha partecipato decisamente controvoglia alla realizzazione della diga. Non ci si voleva scavare la fossa da soli, anche se poi alcuni hanno superato ogni esitazione”.

Il cantiere durò per oltre un decennio e la convivenza non fu cosa facile per le persone.

Durante una gita scolastica “il maestro ci ha detto di urlare in italiano “Montecatini! Ditta di merda! (..) Ai bambini si possono insegnare davvero tante cose. Ma non do la colpa al maestro, a quel tempo c’era in giro molta rabbia contro quella società. Si trattava della sopravvivenza di un intero paese.”  

I curonesi trovarono un valido sostegno nel parroco Rieper. Don Alfred girava i paesi con una serie di diapositive nella borsa per mantenere vivo il ricordo. “Il padre della comunità”, così era definito. Protagonista di una lotta instancabile contro lo sbarramento, “era finito persino in prigione per la gente di qui”. Si era impegnato nella richiesta di un indennizzo adeguato per chi aveva perso casa, campi e maso. Anche dal punto di vista economico, infatti, la committenza non fu onesta nel calcolare un rimborso sufficiente ad affrontare un trasloco e cominciare una nuova vita. 

Partire non fu semplice, “in tutto il paese sgorgavano lacrime” e non si poteva fare a meno di voltarsi indietro a guardare i resti del proprio paese. Ancora una volta.

I racconti dei nuovi inizi sono molto personali, alcuni accompagnati dalla fortuna di un vicinato accogliente, altri invece segnati dalla diffidenza riservata ai “foresti”, fino all’invidia di chi non conosce la verità e si lascia influenzare da false voci riguardo al ricco bottino guadagnato dall’esproprio (vecchia storia le fake news!).

Sentimento comune è la nostalgia, che riporta alla portata collettiva del trasferimento, qualunque fu la destinazione prescelta. “Nel paese vecchio ci conoscevamo tutti. Ma in quello nuovo no, (..) abbiamo dovuto ripartire da zero”.

La dimensione umana è tuttora il nodo cruciale su cui ci si interroga davanti alle implicazioni dell’infrastrutturazione.

I cantieri dell’energia e le grandi opere per servizi pubblici come la rete stradale, idrica e le telecomunicazioni, sono ancora oggi in continua evoluzione ed è necessario lavorare in squadra per inserirsi in un contesto complesso. Uno studio di architettura che intenda affrontare sfide come questa, oggi, necessita di far confluire competenze multidisciplinari nel suo organico, interessandosi delle interrelazioni tra paesaggio, urbanistica e scienze sociali.

Prendiamo ad esempio il progetto della nuova Kiruna, la città svedese che, come i piccoli borghi altoatesini, deve essere progressivamente spostata dalla sua posizione attuale. Anche in questo caso, il destino del centro abitato è segnato dall’attività antropica: lo sfruttamento intensivo di una delle più grandi miniere di ferro. Lo scenario prevede che, con la prosecuzione dello scavo fin sotto l’abitato, dove sono presenti importanti giacimenti, il terreno su cui esso sorge sarà sempre più instabile. Per questo motivo la città deve essere ricostruita, nelle sue componenti essenziali, a 4 km di distanza. A detta dello studio danese H. Larsen, incaricato del progetto, questa circostanza non si esaurisce in una questione economica e tecnologica; la necessità di muovere la città rappresenta soprattutto una sfida sociale. “Si tratta di spostare la mente delle persone”, creare nuove case e nuove identità. 

L’unicità di Kiruna deve essere in qualche modo restituita alla popolazione, che sarà fortemente influenzata da questo spostamento e ne risentirà dal punto di vista identitario. 

A fronte delle esperienze traumatiche nella storia dell’espansione industriale, come quella del lago di Resia, si può fare qualcosa di più che distruggere un paese consegnando agli abitanti un ammasso di capanne prima e un villaggio anonimo poi. Le case Montecatini sono costruite in fretta, con qualità architettonica e dei materiali misere, seppur mostrandosi tecnologiche nel portare acqua corrente e dotandosi di servizi igienici. “La nuova casa per noi non era altro che un ricovero, Curon Vecchia non c’era più”.

Per questo è importante la presenza di figure di mediazione tra le persone e l’amministrazione. Tornando in Svezia, l’antropologa sociale Viktoria Walldin assicura che durante il processo, la voce delle persone verrà ascoltata attivamente. A livello politico poi una visione chiara e ben disposta ad accogliere i bisogni della comunità è fondamentale. Il Comune, in questo caso, è il primo a dichiarare come obiettivo una trasformazione urbana il più possibile democratica. Partecipazione e lentezza. Il processo è pensato per avvenire in una finestra temporale di 50-100 anni, affrontando la previsione di instabilità del terreno superficiale con risolutezza, prima che si verifichino crolli o gravi lesioni agli edifici irreparabili, e consegnando alla città una serie di strumenti per fronteggiare anche fenomeni ad oggi imprevedibili.

La ridefinizione olistica, a detta dei progettisti, ambisce ad un ambiente dove idee innovative e trasformative possano prosperare. L’occasione permette di avvicinarsi ad un pensiero di economia locale e più sostenibile, cercando di iniziare un percorso di transizione che la renda indipendente dalla cava e dal mercato del ferro. 

Il parallelismo mostra come ancora oggi i grandi cantieri si scontrano inevitabilmente con la scala umana, quella delle persone che abitano il territorio. Se, alla base del sentimento di comunità, consideriamo il senso di appartenenza ad un luogo, nel momento in cui questo subisce una profonda trasformazione, si rende necessaria un’attenzione rispetto alle implicazioni e alle conseguenza delle decisioni del governo sul tessuto sociale. E dalla vicenda di Curon è importante che avvenga un’evoluzione del ragionamento.

Sospendendo il giudizio e sostenendo l’ipotesi della diga del lago di Resia come un’opera “urgente e indifferibile” e l’eventualità di fermare l’attività della miniera di Kiruna come causa della morte inevitabile della città, l’attività di progettazione può ancora avere un ruolo per salvaguardare il valore della collettività. Il progetto non si esaurisce dunque con l’impresa ingegneristica. L’innovazione sta nello spostamento dello sguardo in avanti, immaginando gli scenari di convivenza con la grande opera (e oltre, considerando l’eventualità di una sua dismissione), proponendo una riflessione accurata sulla città che verrà. Le forze economiche in gioco sono evidenti e il delicato compito di cui è incaricata la squadra di progettazione è quello di mantenere viva l’identità nonostante le dinamiche di evacuazione programmata. A Kiruna si è deciso di dare forma alle informazioni che arrivano dalla popolazione, costruendo un dialogo lungo un secolo, per tutto il tempo necessario al grande trasloco. La fase di progettazione sembra seguire queste linee di principio per uno sviluppo locale strategico e sostenibile. Verranno rispettati i buoni propositi?

Valeria Simonini

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