Cultura e Società Sport

Il volto nascosto della diplomazia

“Nello sport si vince senza uccidere; in guerra si uccide senza vincere”

Accade a volte che i rapporti fra le superpotenze mondiali siano irrisolvibili per i superpotenti del mondo, ma non per delle semplici comparse che, per caso o per provvidenza o chissà cos’altro, si ritrovano protagonisti della storia.

Se si rispolverano gli avvenimenti del 1971 si rimarrà forse meravigliati di scoprire (o di rammentare) che in un clima di attriti internazionali fra Est e Ovest in generale, e fra USA e Cina in particolare, lo sblocco dell’impasse politico non fu trovato da chi vestiva in giacca e cravatta, ma da due uomini in pantaloncini della tuta e scarpe da ginnastica.

Sì, perché il caso volle affidare nelle mani di Glenn Cowan e di Chuang Zedong le sorti dei rapporti fra Nixon e Mao, in un 1971 in cui ancora si stavano consumando la guerra in Vietnam e le ripercussioni della Guerra di Corea, terminata solo formalmente nel 1953.

Per scoprire chi sono i due involontari protagonisti della storia che ora si andrà a richiamare ci si deve informare sul Campionato del Mondo di Tennistavolo ospitato nel ‘71 dal Giappone, con la nazionale cinese grande favorita (lo è tutt’oggi e lo è sempre stata, salvo per la parentesi Waldner negli anni ‘90), ma preoccupata dall’estro del giovanissimo e inviso americano Glenn, diciannove anni, scanzonato, capelli lunghi e aria un po’ hippie, considerato in grado di mettere i bastoni fra le ruote anche agli infallibili “dragoni”.

Non un’evenienza da poco, se si tiene conto che nel Paese di Mao il tennistavolo è sport nazionale ed è visto come una disciplina equa e confacente a uno stato comunista, dacché rimane accessibile a tutti e viene inquadrata come un’attività ideale per il proletariato, anzi era stata addirittura presa in prestito dal Timoniere Mao per una delle sue celebri metafore: “Considera la pallina da pingpong come la testa del tuo amico capitalista e colpiscila con la tua stoccata socialista”. Insomma, (non) un modo come un altro per dire che non sarebbe stata gradita una sconfitta per mano occidentale. Tuttavia una mano venne data ma nei confronti di un occidentale e fu la mano che l’atleta cinese Chuang (già tre volte campione del mondo) porse proprio allo scapestrato statunitense Glenn.

Quest’ultimo infatti, avendo perso l’ultima navetta dopo l’allenamento, si mise a sbracciare per chiedere un passaggio a qualsiasi convoglio rientrasse in città, finché sorprendentemente, contro protocollo e ancor più contro le contrapposizioni ideologiche, venne raccolto dal pullman della nazionale cinese, fatto fermare dall’affermato Chuang.

Non bastasse, il collega ospitante regalò al rivale americano un ritratto su seta dei monti Huangshan, un souvenir che tradizionalmente era tipico lasciare in ricordo agli ospiti. Non avendo nulla in cambio se non un pettine, Glenn, una volta accompagnato dalla navetta cinese al proprio albergo, chiese di pazientare qualche minuto perché si sarebbe volentieri sdebitato del presente con una maglietta che aveva nella stanza, raffigurante il segno della pace e la scritta “Let it be”.

Certo non si sarebbe aspettato che, durante l’attesa nel parcheggio dell’hotel dove alloggiavano gli americani, attorno al pullman dei dragoni si fosse radunata una folla di giornalisti attirati dall’insolita sosta, allungatasi fino alla consegna del regalo di ringraziamento a Chuang da parte del cappellone californiano.

Di quei campionati del mondo, se provate a cercare in rete, è arduo trovare i risultati (posso però, per dovere di cronaca, riportare che a vincerlo non fu un cinese), proprio perché sono passati in secondo piano rispetto a quel bizzarro soccorso prestato da un atleta a un altro, da quel gesto semplicissimo che però in quel periodo storico pareva così difficile, addirittura così sbagliato.

Un gesto che non rimase infecondo, dacché in quello stesso anno, per la prima volta dal 1949, sul suolo cinese saranno invitati dei cittadini statunitensi; non diplomatici o industriali, bensì “pongisti” (così sono battezzati i giocatori di pingpong), gli stessi della nazionale americana di Glenn, il quale su quella navetta, in quel mai dimenticato pomeriggio durante il mondiale in Giappone, aveva espresso la volontà di andare in visita a casa dell’amico campione.

L’evento fu di portata internazionale, se si pensa che fu la prima visita ufficiale

nella Città Proibita da quando Mao si era insediato, ma anche perché i ragazzini (addirittura era presente una quindicenne) furono la scintilla di quella che viene ancora oggi ricordata come La Diplomazia del Pingpong, in virtù della quale, un anno più tardi, iniziò il disgelo fra i due fronti con la storica visita di Richard Nixon a Pechino.

E quanto ai due colleghi di racchetta, non erano e non sono diventati degli eroi. Lo sottolineo poiché non ci si può abbandonare all’arrendevolezza che debbano essere solamente i grandi a mutare le sorti del nostro tempo. Loro due non erano nemmeno degli avveduti ed oculati capitani coraggiosi, anzi, se si prosegue la storia fino in fondo si scoprirà tristemente che Chuang, dopo la morte di Mao, ebbe contatti con la Banda dei Quattro, un gruppo di politici fedeli al Timoniere che non accettò mai la caduta del regime. Di questo gruppo facevano parte anche la moglie dell’ex presidente e alcuni nostalgici della Rivoluzione Culturale ai quali sono attribuiti diversi atti criminali che, tra gli altri, portarono alla detenzione dell’ex pongista. Fu addirittura esiliato e gli fu impedito di giocare a pingpong con gli altri prigionieri, tant’è che tentò anche il suicidio, prima di riprendersi e di essere scarcerato.

A Glenn andò addirittura peggio: dopo un matrimonio durato solo due mesi, depressione e pazzia lo stroncarono in un ospedale psichiatrico a soli 52 anni, colpito da un infarto. Non si sono più rivisti, i due rivali, dopo quell’incontro storico, ma Chuang volle, negli anni della sua vecchiaia, andare in California a trovare la mamma dell’amico scomparso, per consegnarle una lettera. “Non aver più avuto la possibilità di rivederti – scrive rivolgendosi a Glenn – è il più grande rimpianto della mia vita”. 

Due persone fragili insomma, inadatte e fuori ruolo, hanno più o meno involontariamente contribuito al nuovo equilibrio che ha sostenuto, pur barcollando, il rapporto geopolitico fra i due blocchi fino ad oggi. Altri Chuang e altri Glenn servirebbero ad ogni istante, per dimostrare che da un semplice gesto, uno scambio di parole, una mano tesa a chi si perde, se suffragati da circostanze fortunate, chissà, possono essere un battito d’ali di farfalla che innesca un tornado.

E’ vero, miriadi di tentativi potrebbero non bastare, ed è frustrante constatare quanti sforzi a vuoto si facciano per cercare la pace, ma finché c’è anche una sola possibilità che uno di questi vada in porto, è bene provarci. Un altro giocatore, sempre armato di sola racchetta, ci ha provato proprio in questo triste inizio di primavera e si chiama Andrej Rublev, tennista russo e numero 5 del mondo, al quale va riconosciuto il coraggio di essersi iscritto a un torneo internazionale di doppio, l’ATP di Marsiglia, in coppia con un collega ucraino. In patria non hanno potuto nascondere la notizia e il motivo è semplice: quel torneo è stato vinto proprio da loro, un russo e un ucraino insieme, che hanno scritto una delle più belle pagine dello sport contemporaneo

Ci hanno provato, hanno dato un segnale e soprattutto hanno dato il buon esempio, perché è solo questo che si chiede a tutti noi in fondo, a tutti i costi. Dare il buon esempio è come impugnare un’arma tagliente e può essere fatale o provvidenziale per le sorti anche più complesse, ma è anche un’arma difficile da brandire, eppure non va accantonata nemmeno quando sembra inutile, perché ad oggi non siamo in grado di vederne i risvolti, come per quel battito d’ali di farfalla, o come quella navetta persa a fine allenamento.

Davide Girardi

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