Cultura e Società Sport

Il calcio non si lega

“Non tutto ciò che viene dopo è progresso”

In un mondo che cambia e che corre cercando sempre più, in linea teorica perlomeno, i migliori compromessi possibili tra moderne sensibilità etiche, sociali e commerciali, talvolta succede che le une prevalgono sulle altre, in un dribbling che non lascia scampo.

Qualcosa del genere dev’essere balenato nella mente di chi ha – o aveva – in cantiere un progetto che agli occhi delle televisioni e dei media in generale appariva forse innovativo, ma che, dei tre concetti scritti sopra, ne selezionava deliberatamente uno soltanto, vale a dire quello affine ad un’ottica puramente commerciale. 

Una selezione in effetti quasi darwiniana nella sua brutalità e che forse nel suo incedere funzionerebbe, posto che, ad oggi, il mondo dello sport professionistico vive in buona parte di contratti televisivi e di pubblicità, ma che in questa nuova ottica depurata (e depauperata…) del resto, paradossalmente, costituirebbe un passo indietro, come tra poco si cercherà di argomentare. 

In buona approssimazione, la questione verte sulla eventuale nascita di un nuovo campionato calcistico di venti squadre europee riunite in una competizione privata, sulla base del prestigio intrinseco delle stesse, in funzione della loro storia e della loro nomea. Di queste 20 squadre, 15 sarebbero fisse e le restanti 5 andrebbero alternandosi sulla base di “inviti” non meglio specificati, sebbene si presumono connessi ai risultati ottenuti annata dopo annata nei campionati nazionali.

Si tratterebbe dunque di una cerchia elitaria comprensiva delle più blasonate squadre in circolazione e che andrebbe, de facto, a sostituire l’attuale Champions League, privandola di molte compagini e quindi della linfa vitale che ancora tiene incollati agli schermi tanti appassionati e tifosi. Sono proprio i tifosi tuttavia, ad aver spento sul nascere le velleità di Florentino Perez, ideatore del progetto e presidente del Real Madrid, nella misura in cui si sono sollevate le proteste all’unisono contro il quasi impermeabile meccanismo di accesso alla nuova manifestazione, criticato specialmente perché non rivolto anche alle società con minori disponibilità finanziarie.

Già, perché sono proprio le “piccole” squadre a scrivere le più inaspettate grandi storie; basti pensare solamente al caso dell’Atalanta nel corso di questo biennio oppure, una manciata di stagioni prima, al miracolo Leicester che ha infiammato il sentimento di innumerevoli sportivi e non, riecheggiando quasi il biblico racconto di Davide che sconfigge Golia.

Invece, in una competizione come la nuova Superlega, queste cenerentole non avrebbero alcuna chance per il semplice fatto che non sarebbero nemmeno nella lista delle partecipanti, lista scritta a tavolino dai “grandi” e sulla quale si leggono i nomi di Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid, Juventus, Inter, Milan, Liverpool, Arsenal, Chelsea, Manchester United, Manchester City, Tottenham, Bayern Monaco, Borussia Dortmund e Paris Saint Germain, con le tedesche e le francesi sospese un po’ in un limbo, non essendo pienamente convinte della concreta realizzazione. Quindici selezioni – a cui si aggiungerebbero le ulteriori cinque invitate – in rappresentanza di soli 5 Paesi, con buona pace di tutte le altre.

Si andrebbe dunque a profilare una dinastia tramandata da padre in padre, considerando che per almeno due terzi dell’elenco non vi sarebbe rotazione, come in una sorta di monarchia ereditaria in cui gli eredi sono anche gli stessi progenitori, in un paradosso il cui sapore risulterebbe stucchevolmente autoreferenziale.

E se gli autoriferimenti portavano contraddizioni già da tempi immemori (si veda il paradosso del mentitore, di Epimenide, passando poi in tempi più recenti da Russel a Godel), è lecito aspettarsi che in un settore che dovrebbe aprirsi verso nuove idee, la strada percorsa finirebbe solamente per trascinare invece le magnifiche 15 in una prigione dorata, all’interno del loro castello protetto dai milioni delle televisioni e dalla garanzia di avere a disposizione i giocatori che in epoca recente hanno scritto i loro nomi nell’albo d’oro delle maggiori sfide del Vecchio Continente.

Ma potrebbe bastare? Evidentemente no, perché, per come si sta dipanando la faccenda dopo i primi annunci, pare che questa volta la democrazia abbia schiantato e messo alla corda la dittatura calcistica, dal momento che la voce degli esclusi ha tuonato fino a convincere le grandi d’Europa a rivedere il progetto, se non proprio a rigettarlo. La forza di chi ha detto “Non ci sto” è risuonata inaspettatamente vibrando tra dirigenze e tribune ben oltre le previsioni di chi non aveva dato a tutti gli altri la dovuta importanza. 

Ma più che una vittoria della democrazia è forse in termini ancora più netti una vittoria della meritocrazia, se si pensa che quelle stesse squadre che avrebbero formato la Superlega sono diventate ciò che sono partendo dagli stessi nastri di partenza di quelle che oggi invece sarebbero escluse, motivo in più per riflettere sul proprio passato avendo chiaro che, per usare una seconda citazione manzoniana:

“L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il tempo […]”.

Nel senso che i corsi e ricorsi storici non si alterano senza pagarne le conseguenze, non fosse altro che quelle conseguenze talvolta si traducono in giudizi che, si spera, andranno a costituire una sorta di precedente anche al di fuori dello sport.

Davide Girardi

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