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Nel nome del patriarca: gli accordi di Abramo ridisegnano i rapporti nel MENA

Il 15 settembre del 2020, alla presenza del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno sottoscritto un accordo per la normalizzazione dei loro rapporti diplomatici.

Gli Accordi di Abramo, così è stata ribattezzata la dichiarazione politica congiunta tra Tel Aviv, Abu Dhabi e Manama, mirano a sviluppare forme di collaborazione e innovazione in vari ambiti (economia, commercio, agricoltura, sicurezza alimentare, salute, turismo, energia, ambiente) e a promuovere la pace e la cooperazione tra gli stati firmatari.

Aspirazione, questa, avvalorata dal garante simbolico scelto per vegliare sugli accordi: la dichiarazione tra i tre stati, infatti, prende il nome da Abramo, il patriarca comune delle tre religioni monoteiste che convivono nel Medio Oriente e nel Nord Africa (MENA): Ebraismo, Cristianesimo, e Islam.

Ecco cosa dice il trattato: Incoraggiamo gli sforzi per promuovere un dialogo interreligioso e interculturale volto a far progredire una cultura di pace tra le tre religioni abramitiche e tutta l’umanità. Crediamo che il modo migliore per affrontare le sfide sia attraverso la cooperazione e il dialogo (…). [Traduzione a cura dell’autore]

Il riconoscimento di questa ascendenza comune tra l’Islam, il Cristianesimo e l’Ebraismo dovrebbe servire a far passare l’immagine del Medio Oriente come un’area dove persone e culture diverse possono vivere insieme, rispettarsi e collaborare. Un’idea sicuramente condivisibile ma che troppe volte si è dimostrata irrealizzabile a causa dei conflitti ideologici, politici e religiosi che caratterizzano la regione e l’operato dei suoi attori principali.

Noi stati firmatari riconosciamo l’importanza di mantenere e rafforzare, nel Medio Oriente e nel mondo, una pace basata sulla comprensione e la convivenza reciproche, così come il rispetto della dignità umana e della libertà, inclusa la libertà religiosa.(…) Perseguiamo una visione di pace, sicurezza e prosperità per il Medio Oriente e per il mondo. [Traduzione a cura dell’autore]

Questa dichiarazione di intenti sembra aver convinto anche altri stati a sottoscriverne i contenuti, come testimoniato dall’adesione di Marocco e Sudan nell’ottobre e nel dicembre 2020. Tra le altre cose gli accordi di Abramo sono rilevanti proprio perché rappresentano la prima normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e degli stati arabi, dopo quelli raggiunti nel 1979 con l’Egitto e nel 1994 con la Giordania.

Se consideriamo l’Arab Peace Initiative del 2002, il raggiungimento degli Accordi di Abramo rappresenta qualcosa di rivoluzionario per la regione del MENA. L’Arab Peace Initiative, un’iniziativa avanzata dall’Arabia Saudita sotto l’ombrello della Lega Araba (un’organizzazione internazionale composta dagli stati del Nordafrica e della penisola araba), prevedeva infatti che la normalizzazione dei rapporti tra i suoi stati membri ed Israele, al di là di Egitto e Giordania, sarebbe stata rinviata fino a quando Tel Aviv non avesse raggiunto un accordo di pace con il popolo e le autorità palestinesi.

Ma questo non è successo: gli Accordi di Abramo sembrano volersi lasciare alle spalle la questione israelo-palestinese (tra l’altro mai citata nel Trattato), forse con la vana convinzione che una maggiore integrazione tra gli stati firmatari, tra cui ovviamente non figura la Palestina, possa portare al dialogo e a una pacifica risoluzione del conflitto.

Come scrive Amr Yossef, un accordo di normalizzazione con Israele, che per decenni è stato l’acerrimo nemico del mondo arabo, in passato avrebbe sicuramente generato massicce contestazioni. Tuttavia, in prossimità della sottoscrizione degli Accordi, non sono state segnalate particolari proteste da parte della classe politica e dell’opinione pubblica degli stati firmatari, che sembrerebbero ora più interessati al raggiungimento di un miglior benessere sociale e di maggiori opportunità economiche piuttosto che alla risoluzione delle contrapposizioni storiche che hanno sconvolto la regione.

Il raggiungimento di migliori condizioni di vita e la cooperazione economica, però, non sono gli unici motivi che giustificherebbero la sottoscrizione degli Accordi. La crescente influenza dell’Iran nella regione è considerata la minaccia più pressante da parte di Israele, Emirati Arabi Uniti e da diversi membri del Gulf Cooperation Council (un’organizzazione regionale in cui vige un’area di libero scambio e che riunisce sei stati del Golfo Persico), tra cui Bahrain e Arabia Saudita.

Questo è stato uno dei motivi che hanno favorito il riavvicinamento tra gli altri stati firmatari e Israele, che ora ha un accesso diretto senza precedenti alla penisola arabica e al Golfo Persico. Ma non solo. Secondo il diplomatico italiano Giampiero Massolo, le nuove priorità strategiche degli Stati Uniti hanno avuto un ruolo determinante nella buona riuscita del Trattato.

Fin dall’inizio gli USA si sono impegnati molto per fare in modo che gli Accordi di Abramo andassero in porto, uno sforzo confermato dalla cerimonia di sottoscrizione organizzata nel Giardino Sud della Casa Bianca. L’intervento degli Stati Uniti nel processo di normalizzazione tra Israele e gli altri stati firmatari, infatti, riflette la volontà americana di disimpegnarsi dallo scenario mediorientale per consolidare la propria presenza nel Pacifico e indirizzare il proprio focus strategico verso la Cina e il sud-est asiatico.

Il disimpegno statunitense sarebbe ulteriormente giustificato da due ragioni: in primo luogo gli Stati Uniti starebbero raggiungendo una significativa indipendenza nella produzione di fonti di energia, soprattutto grazie all’estrazione di olio di scisto (o shale oil), un petrolio non convenzionale prodotto mediante processi di pirolisi, idrogenazione o dissoluzione termica da frammenti di rocce di scisto bituminoso. L’estrazione di questo combustibile avrebbe ridotto l’interesse americano per il petrolio e il gas del Medio Oriente. In secondo luogo, sempre secondo Massolo, il declino dello Stato Islamico e di Al Qaeda avrebbero accresciuto la percezione di sicurezza del Paese rispetto alla minaccia di attacchi terroristici sul suolo americano.

Il mantenimento di un’ingente presenza militare in teatri percepiti come marginali rispetto all’interesse nazionale avrebbe convinto la classe politica americana a smarcarsi da operazioni che sarebbero altresì economicamente e umanamente dispendiose. A tal proposito, già nel 2017, gli Stati Uniti avevano provato a disimpegnarsi dal MENA lanciando la Middle East Strategic Alliance (MESA), una proposta di alleanza strategica che avrebbe coinvolto gli stati membri del Gulf Cooperation Council e in misura minore gli Stati Uniti. L’iniziativa strategica, però, non ha riscosso il successo sperato e con il passare del tempo ha ceduto il passo ai più circoscritti Accordi di Abramo.

In ogni caso, nonostante la colpevole assenza di riferimenti al conflitto israelo-palestinese e alle altre criticità che affliggono la regione, (questioni che rimangono irrisolte e che non possono scomparire dalla sera alla mattina), gli Accordi di Abramo rappresentano una svolta determinante per gli equilibri del MENA. Le incomprensioni, le differenze culturali e i conflitti passano in secondo piano per lasciare spazio alla cooperazione e alla realizzazione di un immenso (e ancora ipotetico) potenziale economico, strategico e commerciale, che potrebbe invogliare anche altri attori della regione più reticenti a siglare accordi simili.

A questo proposito sono già state lanciate alcune iniziative bilaterali tra il governo di Tel Aviv e gli omologhi degli altri stati firmatari. Intese che dovrebbero dare vita a collaborazioni in alcuni settori specifici e che potrebbero avere ricadute importanti sulle loro economie. Nel prossimo articolo, in uscita mercoledì, analizzeremo la cooperazione inaugurata da Israele ed Emirati Arabi Uniti nei settori dell’agricoltura e della food security.

Marzio Fait

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