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Invidia sociale e giustizia sociale, un distinguo necessario

I nostri antenati molto combatterono e soffrirono affinché i loro figli potessero usufruire di un bene che oggi appare a noi tutti, qua in Occidente, come qualcosa di normale: questo bene si chiama democrazia.

Essa poggia su due pilastri, libertà e uguaglianza. E nonostante si assista  a continui attacchi dall’esterno e dall’interno volti a rendere tale conquista ogni giorno più fragile,  noi possiamo affermare d’aver in larga misura beneficiato di quei due beni, per cui tanto è stato combattuto e sofferto; e di ciò siamo grati.

Eppure, gettando anche solo una rapida occhiata al mondo circostante, l’immagine che subito si affaccia alla nostra mente non è certo quella di una diffusa tranquillità, di una felicità grande e generalizzata.

Molteplici i problemi: minoranze oppresse; diritti del lavoro, duramente conquistati, a poco a poco perduti; sempre maggiore il numero dei poveri, minore quello dei ricchi; mobilità sociale ridotta o bloccata; per le strade odio trasformato in politica dai partiti; molto astensionismo, poca partecipazione, dibattiti sterili e vecchi; sulla tutela dell’ambiente magnifiche ed eloquenti parole, pessimi o inesistenti i fatti, mentre la terra brucia; come sull’ambiente, così per la condizione della donna, mentre l’aborto viene negato negli Stati Uniti; e dovunque, per concludere, in qualsiasi luogo o classe sociale, serpeggia con sempre maggiore assiduità uno sgradevole e velenoso sentimento, l’invidia.

Ho elencato ora numerose criticità, ma prenderò in esame soltanto l’ultima, non perché le altre siano meno importanti- anzi-, ma perché se vivessimo in una società realmente e perfettamente democratica (è forse un sogno?), problemi come l’integrazione delle minoranze o il divario fra poveri e ricchi non dovrebbero esistere o quantomeno sarebbero molto attenuati; e tuttavia persisterebbe e forse addirittura si acuirebbe il tarlo dell’invidia, dal momento che le profonde fratture sociali sono causate da una mancanza di uguaglianza,  l’invidia invece dall’uguaglianza stessa.

Tengo a precisare che non sto parlando di ciò che viene spesso bollato come “invidia sociale” da ricchi uomini facoltosi, quando alle loro orecchie giungono concetti quali redistribuzione dei beni, patrimoniale, o reddito universale. Né sto parlando dell’invidia di cui sembrano essere colpevoli tutte quelle persone che stentano ad arrivare alla fine del mese, quando timidamente provano a manifestare il loro dissenso. Questa non è invidia, ma desiderio di giustizia, e come tale deve essere ascoltato, compreso, recepito.

Sto invece parlando di quel sentimento che sorge fra persone tra loro realmente uguali nelle condizioni di partenza. Scrive Nietzsche: 

«Dove realmente l’uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fondata, nasce quell’inclinazione, considerata in complesso immorale, che nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile: l’invidia. L’invidioso, quando avverte ogni innalzamento sociale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riabbassare fino ad essa. Esso pretende che quell’uguaglianza che l’uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso. E per ciò si adira che agli uguali le cose non vadano in modo uguale.

La fortuna altrui provoca sofferenza e desiderio di vendetta: un uomo che sente in questo modo è un uomo infelice, conscio delle proprie mancanze ed incapace di porvi rimedio. 

E quante volte oggi, sui vari social network, il successo degli altri ci viene sbattuto in faccia, quante volte ci viene detto che tutti ce la possono fare, che servono soltanto  un poco disciplina e un poco di intraprendenza: ed ogni giorno ci sentiamo sempre più inadeguati, sempre più fragili. E la nostra inadeguatezza, la nostra fragilità fanno la ricchezza di coloro che sono capaci di sfruttarle. 

Per sopperire a immaginarie mancanze c’è solo una soluzione, comprare. Ora una macchina ci renderà pari a colui che invidiamo, domani un telefono, e il giorno dopo ancora un paio di pantaloni, una dieta, un’iscrizione in palestra. L’invidia che brucia  e corrode lo stomaco rende ogni scelta impulsiva ed irrazionale.  

E fatto ancora più grave: le nostre istituzioni politiche e culturali non cercano di correggere o di stemperare un tale sentimento, ma di adeguarvisi. Il politico e l’intellettuale non devono essere percepiti come esempi virtuosi, come uomini capaci di indicare, grazie alla loro competenza, la direzione da seguire, poiché in tal caso verrebbero accusati d’arroganza e snobismo. 

Devono invece apparire uguali tutti, dire ciò che tutti pensano, nella maniera in cui tutti lo pensano: ed ecco che, costretta a fingere una certa becera ignoranza, la classe dirigente d’oggi  si tramuta a poco a poco nel personaggio che interpreta; e così, per paura di venire attaccata, svuota le sue istituzioni di significato e capacità di agire.  Come predetto dal filosofo tedesco, qualunque slancio verso l’alto, viene privato delle sue ali, scagliato al suolo, e livellato. 

Il consumismo sfrenato e la diffusa mediocrità sono i sintomi più evidenti con cui il cancro dell’invidia si manifesta sul corpo, già martoriato, della società contemporanea. Come tutti ben sappiamo, il cancro è spesso malattia incurabile; allo stesso modo l’invidia è un male congenito all’idea d’uguaglianza, cardine della vita democratica.

La situazione che si viene a creare è paradossale: nel momento in cui si alleviano le sofferenze dovute alle disparità economiche e sociali, ecco che ancora tocca all’uomo di soffrire, ed in maniera inedita. Siamo veramente degli animali strani, a cui è stato donato il riso per sopportare la continua infelicità che continuamente ci si presenta davanti. Passiamo di fastidio in fastidio, di problema in problema, spesso incapaci di celebrare quei pochi attimi di felicità che ci sono concessi: comico e tragico destino insieme.

E proprio la tragedia e la commedia fiorirono nella democratica Atene classica. I greci infatti, consapevoli dell’intima connessione che esiste fra vita e sofferenza, escogitarono due modi per affrontare a viso aperto il terribile aspetto della vita: l’eroica compostezza di fronte al dolore ed il riso che condanna e giustifica bonario i difetti degli uomini. 

Gian Lorenzo Dini

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