Cultura e Società Ecologia

Diritti degli animali: oltre l’eurocentrismo per un futuro sostenibile

La parola “animale” deriva dal latino animal, che è a sua volta un derivato di anima. Animale, dunque, è qualsiasi essere provvisto di una forma di vita interiore. Nella storia della filosofia, infatti, il vocabolo è stato riferito anche all’essere umano, che ad esempio San Tommaso D’Aquino, latinizzando la formula greca usata da Aristotele, definiva animal sociale. L’influenza culturale giudaico-cristiana sulla civiltà europea ha poi allungato la distanza fra l’animale umano e le altre specie. Nella Genesi (1, 26) viene infatti attribuito all’uomo, creato a immagine di Dio, il dominio su tutto il creato. Nonostante questo rapporto di subordinazione prescritto dalle sacre scritture, nelle corti di giustizia medievali gli animali furono spesso trattati come persone giuridiche. Resoconti storici di processi intentati contro maiali, ratti e altri animali domestici accusati di crimini contro individui e comunità umani, dall’omicidio alla distruzione dei raccolti, rivelano che gli animali avevano diritto ad una rappresentanza legale come qualsiasi imputato umano. Da un punto di vista storico, simili aneddoti ci inducono a riflettere sulla molteplicità e talvolta contraddittorietà del sentire medievale, soprattutto per quanto riguarda l’effettivo rigorismo religioso di quelle società. Allo stesso tempo, siamo portati ad interrogarci sullo status legale degli animali, che ad oggi sembra paradossalmente essere regredito nonostante l’affermarsi di movimenti animalisti e antispecisti.

È il passaggio dal teocentrismo medievale al crescente antropocentrismo dell’epoca moderna a riaffermare con forza una visione semi-biblica dell’uomo come detentore del potere assoluto sulla natura. Nella quinta parte del Discorso sul metodo, il filosofo Cartesio opera una distinzione fondamentale tra umani e animali. L’incapacità di questi ultimi di articolare un linguaggio sarebbe spia della loro totale mancanza di intelligenza, rendendoli semplici automi privi di anima ed incapaci di provare sensazioni ed emozioni. Il puro antropocentrismo di Cartesio lo porta a negare con fermezza che gli animali possano usare delle forme di linguaggio che sfuggono alla comprensione umana. Eppure, studi recenti hanno dimostrato che diverse specie animali esercitano effettivamente delle forme di linguaggio anche complesse, che tuttavia gli umani non sono in grado di decifrare. Per di più, è stata avanzata l’ipotesi che nella cognizione animale, piuttosto che nella loro effettiva comunicazione, risiedano indizi fondamentali per comprendere le dinamiche evoluzionistiche di sviluppo del linguaggio. Comprendere il pensiero animale, dunque, potrebbe fare luce sul processo che portò i nostri antenati a sviluppare un linguaggio sofisticato e complesso, che diede alla nostra specie un vantaggio evolutivo decisivo.

Attraverso l’epoca moderna e quella contemporanea, il rapporto tra uomo e animale in occidente oscilla tra i due estremi della spietatezza totale e della idealizzazione eccessiva. Il periodo di maggior progresso scientifico fu probabilmente quello più brutale. Esemplare, in questo senso, è la morte cruenta dell’elefantessa Topsy, uccisa mediante elettrocuzione su richiesta di Thomas Edison per dimostrare la letalità della corrente elettrica alternata e promuovere la commercializzazione della corrente continua di sua invenzione. Nel Novecento, animali di diverse specie divennero pionieri astronauti per la NASA e l’Unione Sovietica, talvolta morendo per una missione a cui non potevano chiaramente aver dato o negato il proprio consenso. Ancora oggi, la sperimentazione sugli animali è considerata un male necessario per la ricerca biomedica, anche se il ventaglio di attività in cui questa pratica è considerata accettabile si è notevolmente ridotto negli ultimi anni. Ad esempio, i test di prodotti cosmetici su animali sono vietati in UE dal 2013, e il Parlamento Europeo si è successivamente impegnato a promuovere una moratoria a livello mondiale. Questi progressi sono frutto di un nuovo tipo di sensibilità umana verso la vita animale, affermatasi a partire dai movimenti animalisti e antispecisti del secolo scorso. I primi si riconoscono nei principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale firmata nel 1978 presso la sede parigina dell’UNESCO, ossia nella necessità morale per l’uomo di riconoscere il diritto degli animali alla vita e a risparmiare loro trattamenti crudeli. L’antispecismo è invece un pensiero politico radicale, che mira a scardinare il sistema di subordinazione delle altre specie animali ai bisogni dell’uomo. Come spiega il filosofo transumanista David Pearce, essendo accomunate dall’essere senzienti, tutte le specie hanno diritto a non soffrire. Pertanto, gli antispecisti rifiutano qualsiasi utilizzo degli animali da parte dell’uomo.

Se il movimento animalista e quello antispecista si sono fatti promotori di istanze che potrebbero rivoluzionare il futuro della bioetica, va però tenuta a mente la matrice prettamente occidentale di questo tipo di pensiero. La nostra tradizione, infatti, vede gli animali invariabilmente come esseri inferiori che è giusto sfruttare a nostro vantaggio o come creature speciali da tutelare. Che sia padrone o protettore della natura, l’uomo occidentale resta superiore e distaccato da essa. Si tratta di una logica paternalista, il cui eurocentrismo emerge prepotentemente nel confronto con il modus vivendi dei popoli indigeni. Il cosiddetto “incontro coloniale” (colonial encounter), espressione che denota il contatto tra i conquistatori europei e le popolazioni autoctone del Nuovo Mondo agli albori dell’era moderna, ha messo a confronto concezioni completamente diverse della natura e del posto che l’uomo occupa relativamente ad essa, con risultati spesso letali. Il rapporto non estrattivo dei Nativi americani con la natura legittimò l’espropriazione delle loro terre da parte dei colonizzatori. La convinzione che queste società tribali non sapessero sfruttare adeguatamente le risorse naturali derivava da un sostanziale fraintendimento della loro concezione della natura. Le popolazioni indigene, infatti, si considerano parte del mondo naturale, non altro da esso. Il loro rapporto con l’ecosistema è paritario e reciproco, poiché gli uomini devono rispettare un equilibrio di cui essi stessi fanno parte. La virtù di questa concezione è stata finalmente riconosciuta da un recente rapporto della Commissione ONU per i diritti umani che ha evidenziato il ruolo determinante della presenza indigena per la conservazione degli ecosistemi. Dal documento emerge che tutelare meglio le comunità indigene rimaste sul territorio è il miglior modo per assicurare la conservazione ambientale e, in un’ottica più ampia, fronteggiare la crisi climatica.

Eppure, le tensioni fra il pensiero eurocentrico e quello indigeno sopravvivono nell’ambientalismo odierno. In particolare, molte usanze tribali che coinvolgono gli animali, come la caccia rituale o il ruolo essenziale che alcune specie ricoprono nel sostentamento delle tribù, provocano l’indignazione degli animalisti e degli antispecisti occidentali. Risalgono al 2014 le scuse ufficiali di Greenpeace Canada al popolo Inuit per la campagna contro la caccia alla foca condotta dall’organizzazione nel 1976 che, colpendo indiscriminatamente le compagnie coinvolte nella caccia a scopo commerciale e le piccole comunità indigene per cui le foche costituiscono la fonte primaria di sostentamento, alimentò la discriminazione verso una popolazione già sopravvissuta ad un sanguinoso genocidio culturale da parte dello stato canadese. Pratiche di tal genere, che possono apparire crudeli ai nostri occhi, vanno contestualizzate nella visione indigena dell’uomo come parte di un equilibrio con la natura, che egli si impegna a mantenere pur traendone le risorse per il proprio sostentamento. Per uomini e donne che tributano onori rituali agli animali che cacciano, le argomentazioni del veganismo antispecista sulla dignità animale non hanno alcun senso. In un aneddoto riportato dalla studiosa nativa americana Charlotte Coté, quando degli attivisti contrari alla caccia alla balena proposero alla tribù Makah, nativa della Penisola Olimpica nell’attuale stato federato di Washington, di sostituire l’uccisione della balena con un rituale guerriero non-violento dei Popoli delle Grandi Pianure, un membro della tribù rispose confuso: “Noi non siamo in guerra con le balene.”

Guardare al di là della concezione eurocentrica della natura e riconoscere l’esistenza di diverse sensibilità umane rispetto alla vita animale non comporta certo l’abbandono del pensiero etico occidentale, né tantomeno delle conquiste giuridiche ed ecologiche che questo ha determinato nel campo dei diritti degli animali e della sostenibilità. Piuttosto, un confronto aperto con la sensibilità dei popoli indigeni, che si sono rivelati ottimi custodi di quel che resta di questo nostro pianeta martoriato dallo sfruttamento e dall’inquinamento, è auspicabile per riconoscere i nostri errori passati e per immaginare un futuro veramente globale ed ecologista, in cui l’avanzamento tecnologico e il rispetto per tutte le altre specie viventi possano operare in armonia, conducendo l’animale umano verso un’integrazione completa con il mondo di cui esso fa parte.

Francesca Di Fazio

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