Cultura e Società Locale Paesaggio

Il Rifugio Santner oltre il gesto architettonico

È il 2 luglio, mi trovo sul Catinaccio, un gruppo montuoso delle Dolomiti, situato in Trentino-Alto Adige, e rifletto sul racconto che si fa di questi luoghi, divenuti il simulacro di sé stessi, in un processo di cartolinizzazione sempre più estremo.

Ciò che si verifica oggi, in un’epoca segnata da una forte spinta per la modernizzazione, è la banalizzazione del paesaggio. La smania per il progresso tecnologico, la cupidigia della speculazione, l’abnegazione del linguaggio locale a favore di mode passeggere e di esigenze turistiche neoliberiste trasformano i luoghi, generando un appiattimento di senso nella costruzione del paesaggio. 

Panchine colorate per mettersi in posa, anziché per sostare e concedersi del tempo contemplativo, castelli gonfiabili nei prati dove ci si è sempre e comunque divertiti, “la proliferazione di centri wellness e parchi a tema, disegnano una crescente disneyficazione dell’offerta turistica e un distacco dalla frequentazione e conoscenza dell’ambiente dolomitico, che si fa sfondo della propria esperienza ricreativa.” 

All’apice della parete ovest del Catinaccio si trova il rifugio Passo Santner, un edificio in fase di ricostruzione, che in tanti recentemente non si sono risparmiati di criticare aspramente. Il rifugio in questione è il più alto del gruppo montuoso e, proprio per la fragilità del luogo in cui si trova, non sono tardate a piovere polemiche, da un lato per le dinamiche che hanno portato alla sua approvazione, dall’altro per l’impatto su paesaggio e ambiente: “Un voler fare di più dove invece ci si dovrebbe accontentare del ‘meno’.”  

Soffermandosi sul sentimento alla base di questo malcontento, percepiamo un collettivo smarrimento. La demolizione del primo rifugio risalente al 1956, di cui la guida alpina Giulio Gabrielli fu il costruttore e primo gestore, ha lasciato un vuoto e un senso di spaesamento rispetto ad una scelta, che per certi versi è possibile definire traumatica. 

Sradicare elementi caratteristici dell’immagine di un luogo, come scrive bene Giuliana Andreotti nel libro “Paesaggi in movimento. Paesaggi in vendita, paesaggi rubati”, equivale ad incrinare “il fascino magico proveniente dal loro passato, incarnato in particolari elementi visibili e sensibili.”

L’essenza di un luogo, la sua stimmung, si costruisce infatti anche come composizione di simboli, elementi caratteristici del paesaggio che lo rendono riconoscibile. Inoltre, i simboli, sono un potente mezzo di autoriconoscimento collettivo per la comunità: essi rendono visibile e materializzano la memoria e l’identità storica. Attorno ad essi, il respiro di un popolo si sincronizza e il senso di appartenenza che favoriscono, unisce e genera coesione. 

Si pensi ad esempio a Londra: tra le immagini che in un lampo balzano alla mente di chiunque abbia una minima conoscenza della città, non possono mancare i double-deckers, gli autobus rossi a due piani, tipici del trasporto pubblico londinese.

Anche il paesaggio della strada ha, così come quello montano, lacustre o marittimo, una sua determinazione fisica. Essa si configura attraverso le infrastrutture che lo articolano, le strade che si intersecano, i veicoli che vi circolano e il territorio che attraversa. Così lo scenario della mobilità di Londra si è fissato nel nostro portato culturale grazie ai famosi mezzi di trasporto. 

La schietta aderenza tra la visione e l’utilizzo di questo mezzo di trasporto e il sentimento del luogo nasce dalla natura della flotta rossa stessa: i double-deckers sono costruiti nella giusta scala per le vie che da essi sono servite, sono funzionali, prima che esteticamente accattivanti, e questo ha permesso la loro diffusione e l’attaccamento emotivo alla loro presenza. Tant’è che gli autobus rossi a due piani di Londra sono diventati poi un simbolo nazionale.

Quando il mezzo viene ritirato dal servizio nel 2005, a causa delle difficoltà nell’accogliere i passeggeri disabili, si dissolve un frammento di vita della città. La loro scomparsa priva il paesaggio della strada di Londra di una componente psicologica e rappresentativa. 

I double-deckers erano un archetipo, il modello originario e ideale di un elemento della strada, nato e diffusosi in uno specifico contesto. Il loro successo li aveva resi iconici ed è in questa loro fortuna che nasce il pregiudizio secondo cui la loro capacità rappresentativa poteva essere trasferita per proprietà transitiva altrove. Così, sono diventati uno stereotipo e oggi il bus a due piani è l’emblema del trasporto turistico. 

Il caso del rifugio Passo Santner può apparire ora più chiaro grazie al precedente inglese. Il turbamento sopraggiunge anche in chi, come me, raggiunge il passo per la prima volta. Lo svuotamento di senso non ha bisogno di un termine di paragone con la precedente architettura alpina per verificarsi, poiché il luogo esprime chiaramente cosa vorrebbe essere.

Questo è quello che accade a chi, lasciatosi alle spalle le Torri del Vajolet e trovandosi davanti alla nuova piramide con guscio in lamiera, anziché alla capanna alpina di sempre, sente il cuore perdere un battito. 

Quel piccolo rifugio, costruito in economicità da una guida alpina, era il simbolo e lo spirito del luogo. La sua misura era minuta ma accogliente, lo spazio era pensato come la corazza di un cavaliere inesistente, che dentro quelle pareti si muove e si fa spazio, per essere il meno possibile ingombrante, ma comunque ospitale. Questo era il suo ruolo, la sua ragion d’essere, l’ospitalità di alpinisti e alpiniste giunti in quota.

Di certo il suo scopo non era quello di richiamare curiosità e apprezzamenti per la sua apparenza, il suo involucro. La genuinità con cui sono costruiti questi piccoli edifici è saggia in questo senso, si prende carico della responsabilità della sua posizione: un piccolo tetto panoramico a 2734 metri. 

L’omologazione ad un immaginario dominante, rispetto a ciò che è comunemente considerato accattivante, alle linee e guizzi che i più iconici edifici delle nuove Archistar informano, ha delle implicazioni importanti, che vanno ben oltre le considerazioni di gusto personale. A chi ci si rivolge quando si progetta un rifugio? Chi saranno i visitatori dell’edificio? Cosa comunica l’architettura? A chi parla, in chi risuona e cosa risveglia?

Certamente il progetto ha insite in sé delle possibili conseguenze. Prima fra tutte l’affluenza di visitatori che si prepara ad accogliere, non solo per l’aumento di escursionisti già in atto, ma anche e soprattutto per le scelte progettuali che, in parte, vengono qui decostruite e che sono motore del rilancio del turismo di massa. Il progetto di ricostruzione, non ancora ultimato, prevede una cubatura otto volte maggiore dell’originale. 

Tale rivoluzione è stata possibile poiché il sito si trova in territorio altoatesino, dove la legge permette la proprietà privata e una conseguente maggiore libertà d’azione sui rifugi, rappresentati dall’Associazione provinciale degli albergatori HGV, anziché regolamentati dal CAI. Resta comunque necessario presentare i disegni ad un comitato scientifico per l’approvazione. In questo caso, il progetto è stato accettato dal Comune di Tires, dalla Provincia di Bolzano, dall’Ufficio Parchi e dalla Fondazione Dolomiti Unesco.

Il collage che racconta l’idea progettuale dello studio Senoner Tammerle Architekten inoltre, mostra una seggiovia che raggiunge il passo Santner e contestualmente, la monumentale tenda metallica. Una funicolare per trasportare le provviste in vetta, non è mai stato un tema su cui infuocare una polemica ma i lavori di rifacimento della linea sembrano indicare la costruzione di un impianto visibilmente più imponente di quello necessario a rifornire un rifugio. 

La questione delle teleferiche per trasporto merci e materiali interessa particolarmente Stefan Perathoner, imprenditore del rifugio Alpe di Tires e responsabile dei rifugi altoatesini per l’HGV, nonché padre dell’attuale proprietario del rifugio passo Santner. 

Perathoner si batte da tempo affinché vengano modificate le norme europee che consentano il trasporto anche di persone, collaboratori dei rifugi o infortunati in montagna. 

Quali conseguenze può avere l’apertura al pubblico di questa agile risalita?

Una corsa senza freni verso la definitiva cartolinizzazione del passo, il punto giusto per consumare il panorama montano. Salire comodamente a quasi tremila metri, per poter scattare una fotografia, testimonianza visiva dell’impresa avvenuta. È questo il significato di questo posto? In ottica di innovazione, può questo essere un nuovo significato appropriato a questo luogo? 

Non si tratta dunque di dare adito a critiche meramente estetiche, quanto più di capire cosa ci destabilizza di queste forti trasformazioni in territorio alpino e se queste sensazioni fisiche possano suggerire e scaturire una ricerca più approfondita delle problematiche insite in progetti come questo. 

Ragionare sulla semantica è una chiave di lettura per le emozioni che l’architettura riesce a provocare, siano esse di stupore o di resistenza. La sparizione di un segno identificativo di un paesaggio equivale alla sensazione di perdere le parole di una frase e non comprendere più l’intero discorso; non ci si riconosce più e ci si sente estranei.

Perdere il senso di appartenenza a un luogo è perdere la motivazione per prendercene cura, per volere il meglio per esso, per gli esseri umani e non umani che lo abitano e ne fanno parte. Al contrario, in questo momento storico in cui la dicotomia tra naturale e artificiale, tra incontaminato e antropizzato, si fa sempre più sentire, provocando una distorsione della percezione della realtà, sarebbe preferibile assumerci la responsabilità di fare parte del tutto in cui viviamo. 

In quest’ottica il paesaggio torna ad essere il progetto comunitario della natura, in continuo mutamento, e dell’uomo, come suo elemento. Tutto è progetto e il paesaggio è il tutto. 

Valeria Simonini

© Riproduzione riservata

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