Economia e Politica Esteri

Per un mondo in guerra, una visione di Pace

Chi avrebbe mai pensato, fino a qualche anno fa, che un giorno ci saremmo trovati con un mondo in guerra? 

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, secondo l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti, nel mondo, si contano ben 31 conflitti ad alta intensità. 31 luoghi dove la guerra uccide, distrugge case, famiglie, vite. 
Parliamo, certamente, di Ucraina, Palestina, Yemen, Sudan, Congo, Somalia, ma questi sono solo alcuni dei tanti Paesi dove ogni giorno si combatte; non sono gli unici. 

I numeri delle violenze in giro per il mondo

Nel 2023, secondo l’International Institute for Strategic Studies di Londra, si sono registrati oltre 183 conflitti locali e regionali, il numero più alto degli ultimi trent’anni. Situazioni più circoscritte rispetto ai conflitti ad alta intensità, dove la sicurezza delle persone è comunque messa a repentaglio da un contesto di violenza diffusa. 

Le conseguenze sono devastanti, oltre ai morti, aumentati del 96% tra il 2022 e il 2023 (almeno 237.000, secondo le stime dell’Università di Uppsala), ci sono circa 108 milioni di persone in fuga dalle guerre, dalle violenze, dalle situazioni di crisi. 
Numeri pazzeschi, difficili da immaginare, soprattutto per chi, come noi, può (ancora) fregiarsi di vivere in una parte di mondo tutto sommato pacifica. 

A pensarci, è come se, negli ultimi decenni, avessimo percepito la guerra come qualcosa di lontano nel tempo e nello spazio. Residuati del ventesimo secolo. Grovigli geopolitici in quella che credevamo la periferia del mondo

Ci sembrava di vivere la fine della storia teorizzata da Fukuyama. L’Occidente come punto d’arrivo del progresso sociale, economico e politico. Il ventesimo secolo come gli anni dell’integrazione, dello scambio, della cooperazione.

Ci sbagliavamo. Ignoravamo i segnali della storia

Certo, sarebbe assurdo credere che il contesto di violenza diffusa che stiamo vivendo ultimamente sia qualcosa di inedito. 
I conflitti non hanno mai smesso di infuriare, anche vicino a casa. Di persone ne sono morte a migliaia, troppo lontane, troppo diverse da noi per accorgercene. 

Però, ora che la guerra ci tocca da vicino, che sfiora i nostri confini, minaccia le nostre economie, è tornata al centro dei nostri pensieri.

Solo che forse, la osserviamo dal punto di vista sbagliato.

Il dibattito pubblico

Negli ultimi tempi, la retorica bellicista domina il dibattito pubblico e i titoli dei giornali

In un contesto globale dominato dall’incertezza, dove la comunità internazionale non è dotata degli strumenti necessari per frenare le mire di chi vuole sovvertire l’ordine delle cose, si rispolverano motti dimenticati da tempo: Si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra. 

Politici e governanti di ogni dove parlano di guerra e di interventi militari con una leggerezza scoraggiante, quasi giocassero a Risiko o coi soldatini di piombo. 
Una retorica, che purtroppo si riflette fin troppo chiaramente nelle loro azioni.

Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), la spesa militare mondiale, per il 2022, ammontava a circa 2.240 miliardi di dollari, circa un quarto in più rispetto a quella versata nel 2013. Una spesa pro capite di circa 280 euro. Cifre da capogiro se paragonate a quelle investite per contrastare la crisi climatica, che, per essere gestita e raggiungere emissioni zero entro il 2050 richiederebbe, secondo il Fondo Monetario Internazionale, investimenti annui di circa 5.000 miliardi di dollari. 

Sono questioni che spesso non vengono prese in considerazione, anzi. Anche molti attori del panorama dell’informazione parlano di guerra con troppa leggerezza: la geopolitica e l’economia la fanno da padrone. 
Si analizzano gli armamenti dell’uno o dell’altro schieramento, le mire di uno o dell’altro Stato, si contano i danni all’economia, gli investimenti più sicuri, si vagliano alternative…

In pochi sembrano tenere conto delle vittime, quasi fossero un danno collaterale di un grande spettacolo di intrattenimento.

A marzo 2024 si contavano circa 25.000 donne e bambini uccisi a Gaza dai raid israeliani. In Ucraina, dati non ufficiali parlano di circa 10.000 vittime civili. Per non parlare di quello che succede nel resto del mondo, di cui purtroppo sappiamo troppo poco.

Mettiamoci nei panni di queste persone. Cosa succederebbe se una bomba radesse al suolo la mia casa? Se un commando rapisse la mia famiglia? Se perdessi una gamba in una sparatoria? Se dovessi recarmi al fronte?

Creare una cultura di Pace in un mondo in guerra

Non sta a me dare lezioni a chicchessia o dire cosa sia giusto o non giusto fare. Spero solo che questo articolo, nel suo piccolo, possa suscitare una riflessione sul valore della Pace.

Troppo spesso, infatti, la Pace viene derubricata da molti ad aspirazione di filo-putiniani, fricchettoni e preti (senza nulla togliere a fricchettoni e preti), senza renderci conto, invece, che è il bene più prezioso di cui disponiamo. 

Senza Pace crollano le fondamenta su cui si dovrebbe basare la società. Senza Pace non c’è cibo, istruzione, benessere, uguaglianza, lavoro, salute.

Con questo non voglio dire che il dibattito, l’analisi geopolitica o le notizie sulla guerra debbano sparire dall’agone politico, dai titoli dei giornali, ma bisogna lavorare per un cambio repentino di paradigma: la Pace deve essere mezzo e fine. Dobbiamo indirizzare ogni nostro pensiero, ogni nostra azione, affinché la Pace diventi l’obiettivo da raggiungere, il fine ultimo, ma anche lo strumento con cui appianare e risolvere le controversie.

In un mondo minacciato su più fronti, dall’instabilità politica, da quella economica, dalla crisi climatica, rischiamo che i problemi del mondo si accumulino e si amplifichino l’uno con l’altro, lasciando campo aperto all’inasprimento delle disuguaglianze, delle tensioni, all’insorgere di conflitti. 
Viviamo in un mondo troppo interconnesso per ignorare queste cose. Se non facciamo qualcosa per rivedere le nostre priorità, il nostro modo di agire, rischiamo di soccombere. 

Spesso tendiamo a pensare che siano i politici a tirare le fila, a decidere come va il mondo. Una visione che scoraggia e che non induce all’azione. Ma se non fosse così? Se i governi, i decisori, non fossero altro che l’espressione dello spirito del tempo? Del volere più intimo e profondo della società? 

In tal caso è necessario lavorare su di noi, sulla comunità. Bisogna adoperarsi per diffondere una cultura basata sulla Pace in senso lato, sul dialogo, la cooperazione, i diritti umani. Fare in modo che attecchisca e sviluppi radici forti.

Solo se interveniamo sul nostro modo di vedere il mondo, sul nostro modo di fare le cose, possiamo sperare di cambiare la situazione. Un lavoro lungo, faticoso, di cui, forse, in vita, potremmo non vedere i frutti, ma che ora è più necessario che mai. 

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