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Guerra e diritto internazionale

“Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra […] ”. Così comincia, nel preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite, l’elenco delle finalità che l’ONU si promette di perseguire. All’art. 2, paragrafo 4, si dispone poi che “i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.

Pare dunque incredibile e assolutamente ingiustificabile che la Russia, cioè uno Stato membro dell’ONU, suo fondatore e membro permanente del Consiglio di Sicurezza, abbia deciso di invadere militarmente l’Ucraina. In tale situazione è spontaneo chiedersi a che cosa serva realmente il diritto internazionale se non è in grado di evitare le guerre e mantenere quindi la pace in primis tra le Nazioni che esplicitamente lo riconoscono come vincolante. Infatti, visto lo svolgersi degli eventi, parrebbe che di fronte alla forza bruta e alla minaccia di una violenza inaudita, quella nucleare, il diritto perda totalmente la propria cogenza, ovvero la capacità di essere la regola delle condotte umane. E in effetti si potrebbe dire che l’unica via per una sua applicazione in questa situazione sia forse rappresentata dalla speranza che la Russia stessa decida di compiere un passo indietro e tornare a gestire la propria politica internazionale per mezzo del diritto stesso, essendo molto improbabile e forse non auspicabile che uno Stato terzo prenda parte alla guerra allo scopo di costringerla a rispettarlo. 

Infatti il diritto internazionale – e il diritto in generale – non è in grado di imporsi di per sé, per il solo fatto di esistere, poiché trae la propria forza cogente soltanto o dall’imposizione da parte di uno stato terzo o dalla sottomissione volontaria di uno stato alle sue regole. Ciò non è poi così diverso da quanto potrebbe accadere anche nei rapporti tra i privati cittadini e in quelli tra loro e lo Stato: Tizio può decidere di fermarsi al semaforo rosso, perché convinto intimamente che il rispetto del codice della strada sia l’unico modo per evitare incidenti alla guida, oppure perché spaventato dalla possibile sanzione imposta coattivamente dallo Stato. In ogni caso il risultato non cambia: egli fermerà la propria corsa per sua propria volontà. Così nei rapporti internazionali, un qualche governo potrebbe decidere di non compiere offensive militari ingiustificate, perché convinto della crudeltà e disumanità insite nella guerra o perché teme la minaccia di una risposta da parte della comunità internazionale, analogamente a quanto è accaduto, per esempio, all’Iraq dopo l’invasione del Kuwait. 

La questione si fa tuttavia assai complessa e più delicata quando un paese decide invece di compiere un’azione militare ingiustificata,  quando – richiamando la metafora del semaforo – un cittadino sceglie di passare col rosso infrangendo consapevolmente il codice della strada. In questo caso accadrà che, al reiterarsi di tale comportamento, costui perderà la propria patente e con essa la possibilità di guidare. Tuttavia la soluzione si complica ulteriormente se a non rispettare le regole del diritto internazionale è un Paese che dispone di un esercito potente e soprattutto di un arsenale atomico: la minaccia nucleare è infatti – forse – in grado di inibire completamente una risposta prettamente militare da parte della comunità internazionale. Questa poi, in ottemperanza alla Carta ONU dovrebbe essere decisa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui però la Russia è membro permanente e in grado di esercitare il diritto di veto in qualsiasi deliberazione. Un cortocircuito del diritto internazionale che ne rende ancora più palesi i limiti. 

I limiti del diritto internazionale, la sua incapacità di agire contro il paese aggressore, sembrano limiti invalicabili, se non al costo di modificarne il suo funzionamento. Resta da chiedersi se esista però un’alternativa a questo stato di cose. Se non ci si può appellare al diritto, cos’altro potrebbe assicurarci un principio di giustizia?

Filippo Frisinghelli

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