Medicina Scienze e Innovazione

La paziente di New York: l’HIV è giunto al capolinea?

Dopo il “paziente di Berlino” e il “paziente di Londra”, sembra esserci un terzo di caso di guarigione dall’infezione HIV.

A differenza dei primi due casi, in quest’ultimo la protagonista è una donna, di cui si protegge momentaneamente l’identità. 

Di lei sappiamo solo che è di mezza età, etnia mista e l’anno di diagnosi di sieropositività all’HIV ovvero il 2013. La stessa, a marzo 2017, ha sviluppato una leucemia acuta per la quale si è reso necessario che venisse sottoposta ad una terapia messa a punto ad hoc da un’equipe del “Weill Cornell” Medical Center del New-York Presbitarian Hospital di New York City.

Prima di addentrarci nella trattazione dell’evento che sta entusiasmando la comunità scientifica mondiale, è bene che il lettore familiarizzi con alcuni termini prettamente clinici, la modalità di infezione del virus e la sua storia medica e sociale.

Una malattia si definisce “in remissione” quando, con o senza cure in atto, i suoi segni e sintomi stanno diminuendo o scomparendo. Il termine “remissione”, anche se implica miglioramento, non è indice di “guarigione” e viene generalmente impiegato quando la condizione del paziente è positiva ma solo in modo transitorio. Nonostante la remissione, infatti, il processo patologico persiste nell’organismo e può ripresentarsi in maniera acuta peggiorando dunque le condizioni del paziente. 

La “guarigione”, invece, è dichiarata nel momento in cui per un periodo di tempo lungo (diversi anni) il paziente non mostra alcun segnale che possa far pensare che la patologia sia ancora in atto e “silente”. L’evoluzione attraverso fasi di remissione e di riacutizzazione della sintomatologia senza arrivare alla totale guarigione è diffusa tra molte patologie tra le quali l’infezione da HIV. Infine, per “sieropositività all’HIV” si intende la condizione di soggetto portatore del virus da distinguere da quella di soggetto affetto da AIDS. Quest’ultimo acronimo inglese sta per “sindrome da immunodeficienza acquisita”, una possibile complicanza della condizione di portatore del virus.

L’HIV, acronimo inglese che sta per virus dell’immunodeficienza umana, è un virus che colpisce i linfociti T helper CD4+, cellule dell’immunità umana che normalmente riconoscono i microbi e attivano altre cellule direttamente responsabili della distruzione di questi ultimi.

Il sistema immunitario può essere pensato come un esercito ben organizzato con reparti distinti; ci sono numerosi gruppi di cellule ciascuno dotato di funzioni specifiche che collaborano per la difesa del nostro corpo contro il nemico ovvero qualsiasi sostanza vivente e non che può nuocere causando un processo morboso.

I nostri protagonisti linfociti T helper CD4+ sono definiti “aiutanti” perché, come descritto sopra, supportano altre cellule; la dicitura “CD4+”, invece, fa riferimento ad una particolare proteina situata sulla loro superficie. 

“CD4+”, assieme ad un’altra proteina di superficie chiamata “CCR5”, rappresenta una chiave di accesso dell’HIV all’interno dei linfociti stessi. Il virus “si aggancia” a CD4+ addentrandosi nel linfocita.

Una volta entrato all’interno, inizia il suo processo replicativo: si riproduce uccidendo i linfociti e determinando dunque la compromissione di uno dei più importanti compartimenti di difesa dell’organismo. 

La riduzione quantitativa e qualitativa dei linfociti T helper CD4+ significa per il nostro corpo maggiore suscettibilità alle infezioni e non solo. Anche i tumori, infatti, si sviluppano molto più facilmente in un soggetto HIV positivo; è il caso della paziente di New York di cui si vuole raccontare la storia speranzosa.

L’HIV è un virus che ha stravolto la vita di milioni di persone, condannandole a un calvario anche e soprattutto psicologico, visto l’importante stigma sociale ad esso associato. 

L’inizio della storia di questo microbo grande circa 100 nm, si colloca negli USA alla fine degli anni ‘70 segnata dalla Guerra Fredda. 

Nella distrazione e incredulità di tutti, dato che medici e scienziati ancora festeggiavano l’eradicazione definitiva del vaiolo grazie al vaccino messo a punto nel 1977, stava diffondendosi una “nuova” malattia infettiva. 

La malattia era sconosciuta ai più e si presentava il più delle volte con febbre, mal di gola, macchie cutanee e linfonodi del collo ingrossati. Sui giornali si leggevano titoli fuorvianti come “cancro dei gay” e “GRID” acronimo inglese che sta per “immunodeficienza correlata ai gay”, dal momento che inizialmente ad esserne colpita di più fu la comunità omosessuale americana. Col tempo, oltre agli omosessuali, l’infezione colpì sempre più anche le persone tossicodipendenti, tra le quali era solito far uso della stessa siringa per l’iniezione endovena della droga: si tenga a mente che oltre alla via sessuale, l’HIV si trasmette anche per via ematica. Per lo scompiglio e la paura, si cadde nell’errore di concludere in maniera affrettata che si trattava di un’infezione circoscritta alle suddette persone e associata ai comportamenti di quest’ultimi “promiscui ed a rischio”: i fatti però, dicevano tutt’altro. La maggior incidenza della malattia tra le persone gay si giustificava col fatto che il turismo sessuale gay aveva, allora come oggi, meta Haiti, ponte tra l’Africa e l’America. Il virus infatti iniziò a circolare in Africa, si estese all’isola caraibica ed infine al Nuovo Continente. Col passare del tempo, la sieropositività iniziò ad essere riscontrata anche all’interno delle coppie eterosessuali e si comprese dunque la necessità di mettersi all’opera per definire la vera origine della malattia. C’è dell’Italia in colui che per primo accertò che la malattia è virale, il dott. Robert Gallo. Correva l’anno 1982 e Gallo era direttore del laboratorio di biologia cellulare dei tumori del National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland. Un anno dopo, il 4 novembre, il virus venne finalmente individuato ed isolato nei tessuti di una persona infetta dalla virologa Françoise Barré-Sinoussi, nel laboratorio guidato dal virologo Luc Montagnier, Nobel per la Medicina nel 2003.

Lo stesso impegno e fervore per scoprire l’origine della malattia furono impiegati per mettere a punto la terapia farmacologica che fu approvata ufficialmente nel 1987 e consisteva in una molecola, l’azidotimidina, in grado di bloccare una proteina utilizzata dal virus per riprodursi. Il farmaco aveva importanti effetti collaterali e il risultato non fu molto soddisfacente ma allungava in ogni caso di poco la vita dei pazienti. Gli studi per la realizzazione di una terapia più efficace procedevano di pari passo con la promulgazione di campagne di sensibilizzazione per la prevenzione. Prevenire è, da sempre, meglio che curare. Nel trattamento odierno, la terapia non è cambiata molto dal momento che si ricorre a farmaci più raffinati, ma il cui principio di azione rimane la riduzione e il rallentamento della riproduzione del virus senza però eradicare totalmente l’infezione da HIV. In ambito di ricerca, invece, sono stati fatti passi da gigante e il recente caso della paziente di New York ne è la prova.  

Il trattamento sperimentale newyorkese a cui è stata sottoposta la donna è stato illustrato alla Conferenza di Denver, in Colorado in cui si è discusso, tra i vari argomenti, anche dell’HIV. Alla donna, sieropositiva dal 2013, sono state trapiantate cellule staminali per poter trattare la leucemia, tumore maligno del midollo osseo, un tessuto deputato alla produzione delle cellule del sangue. Le cellule staminali sono delle cellule prive di funzioni specifiche che una volta trapiantate possono “essere istruite” ad adempiere alle funzioni desiderate di cui il soggetto è deficitario. La leucemia della paziente è comparsa nel 2017 e nello stesso anno si sono prelevate delle cellule staminali dal sangue di cordone ombelicale di un neonato con una particolare anomalia genetica che rende inattiva CCR5, una delle due chiavi sfruttate dall’HIV per entrare nei linfociti ed infettarli. Le cellule mutate sono quindi resistenti al virus perché prive dello strumento sfruttato dallo stesso per entrare. Già in passato erano state usate cellule con questa mutazione per ricostruire un nuovo sistema immunitario resistente all’HIV prelevate però da soggetti adulti. Trattandosi di una donna e di etnia mista, le possibilità di trovare un donatore adulto geneticamente compatibile e portatore della mutazione “vincente” erano basse. I donatori di midollo osseo infatti negli USA sono pochissimi e quasi tutti di etnia caucasica. Il sangue del cordone ombelicale, invece, è più facile da reperire rispetto alle staminali adulte del midollo osseo, ha maggiori probabilità di essere compatibile con il ricevente e quindi un minore rischio di rigetto. Dopo il buon esito del trapianto, la paziente ha continuato la terapia antivirale per 3 anni, trascorsi i quali ha deciso, in accordo coi medici, di sospendere l’assunzione dei farmaci anti-HIV. Oggi, 14 mesi dopo, non c’è più traccia del virus nel suo corpo. Gli esperti considerano l’infezione da HIV della paziente in remissione ma non si sbilanciano e scoraggiano al momento di dichiararla guarita. Si tratta in ogni caso di una procedura rivoluzionaria nella lotta all’HIV, che dà una grandissima speranza a milioni di malati.

E non solo.

Iman Azri

© Riproduzione riservata

Condividi se ti è piaciuto:

Similar Posts