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Il coltan, un utile sconosciuto

L’altro giorno mentre bevevo un caffè al bar, con la coda dell’occhio ho notato un signore barbuto che mi si avvicinava. Mi sono voltato, ci siamo guardati per un paio di secondi e poi mi ha detto: “faccio un sondaggio per la radio, cosa sai del coltan?”. Io gli ho risposto quel poco che sapevo e lui ha ribattuto che molti ignorano anche quel poco.
Allora ho pensato che sarebbe stato opportuno scriverne qui.

Prendendo in prestito le parole della Treccani, il coltan è “columbo-tantalite, un minerale nero metallico composto da columbite e tantalite”.

Questo ci dice ben poco. È più rilevante sapere che è ricco di tantalio, un metallo indispensabile per l’efficiente funzionamento di molti congegni portatili, tra cui il computer da cui scrivo e il dispositivo da cui stai leggendo.

Ai fini di questo articolo ci limiteremo a descrivere la filiera del coltan, cercando di comprendere da dove arriva, chi lo produce e come finisce tra le nostre mani.

Il coltan è un minerale molto raro in tutto il mondo, eccezion fatta per l’Australia e per la Repubblica Democratica del Congo, dalla quale si stima ne provenga circa l’80 percento della quantità globale. È la regione orientale del Kivu, confinante con l’Uganda e il Ruanda, ad esserne la principale custode. L’area è da sempre teatro di guerre tra fazioni paramilitari appoggiate dai vicini stati sovrani e guidate da potenti speculatori. Il conflitto ha ovviamente dei costi e il coltan è la risposta. Così, i signori della guerra locali si autofinanziano mediante l’estrazione del minerale. 

Le operazioni di scavo vengono svolte dalle popolazioni locali, costrette a ciò con la forza. Non c’è margine di scelta per gli indigeni e la paga è irrisoria. I minatori percepiscono 3-4 dollari al giorno, le donne e i trasportatori 2 dollari, mentre il diffuso lavoro minorile viene retribuito ancora meno.

È ora opportuno cercare di comprendere in che modo ci coinvolga la situazione congolese. La risposta si ricava dal ruolo del consumatore occidentale all’interno della filiera.
Riccardo Bottazzo, sulle pagine del Manifesto, suddivide l’iter in sei fasi:

  • I minatori artigianali estraggono il minerale.
  • Il coltan è venduto ai compratori locali.
  • Questi o i minatori artigianali lo rivendono a compagnie estere presenti in loco, come la cinese Cdm.
  • Le compagnie vendono il coltan ad altre imprese dislocate all’estero, che lavorano il minerale.
  • Il minerale lavorato è acquistato dalle industrie incaricate di produrre le componenti tecnologiche.
  • Queste sono a loro volta acquistate dai grandi brand internazionali che le assemblano e portano il prodotto compiuto nei negozi, dove noi andiamo a fare compere.

Siamo dunque parte integrante della filiera e il nostro ruolo è centrale.

Certamente chi legge conosce la PlayStation, presente nei salotti di mezza Italia. Tra il 1999 e il 2000 si registrò un boom di domande. Tutti volevano una PlayStation 2, forse ignorando che la celebre console per funzionare necessita di componenti in coltan. L’incremento della domanda e la poca disponibilità del minerale ne fecero schizzare il prezzo alle stelle, dando così il via ad una vera e propria “coltan rush”.

Alla forsennata ricerca del “nuovo oro” le milizie distrussero interi villaggi, deportarono gli indigeni, commisero stupri ed omicidi laddove qualcuno si frapponesse tra loro e la risorsa più preziosa. Nel frattempo, in Occidente, un bambino attendeva con entusiasmo la nuova console.  

Un tentativo di contenere il finanziamento indiretto del conflitto viene fatto negli USA durante l’amministrazione Obama con il Dodd-Frank Act. La legge impone alle società quotate statunitensi di controllare “diligentemente” l’origine delle materie prime acquistate per stabilire se queste provengano da zone di conflitto nella RDC. Se da un canto la legge ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica congolese e mondiale, diffondendo la consapevolezza del problema, d’altra parte permangono tre criticità nodali.

La prima riguarda l’attività di boicottaggio delle miniere congolesi. Sempre più compratori si sono allontanati dalle miniere della zona, costringendone molte alla chiusura. Da ciò sono derivati l’incremento della disoccupazione e della tensione sociale nella zona.    

La seconda criticità consiste nella condotta del Rwanda, divenuto in poco tempo il maggior esportatore di coltan al mondo. La tecnica è semplice: il Rwanda certifica i minerali provenienti dalla RDC e li esporta come fossero prodotti ruandesi, frustrando così la ratio della legge.

L’ultimo problema deriva dalla applicabilità del Dodd-Frank Act alle sole società statunitensi, gravando queste di un onere sconosciuto alle concorrenti.

In conclusione, la legge in esame dimostra un approccio leggermente miope, pretendendo di ricondurre l’intera crisi congolese al solo problema minerario e tralasciando fortemente considerazioni di tipo economico.

Tuttavia, è da apprezzare il tentativo di risolvere un problema così complesso. Bilanciare la necessità di tutelare l’economia del paese con l’esigenza di una filiera più trasparente non è un’impresa facile.

Fairphone ha dato in questo senso un prezioso contributo. La compagnia, impegnata nella fabbricazione di cellulari, ha il pregio di controllare la filiera del coltan certificandone la provenienza. Il costo di un cellulare “fair” si aggira intorno ai 450 euro e questo, ad avviso di chi scrive, pone un altro problema tipico della nostra economia. Il consumatore è raramente disposto a pagare bene un prodotto durevole. È sempre preferibile un prodotto economico, usa e getta, a prescindere dalla sua provenienza o destinazione. 

Non è slegato da ciò il tema della consapevolezza nel momento della scelta del prodotto da acquistare. Essere consumatori informati è essenziale quanto difficile, oggi più che mai.
Nessuno pretende che si spendano 450 euro per un cellulare, ma è giusto sapere cosa si compra nel momento in cui se ne acquista uno per 150. La differenza di prezzo rende lampante che ad ogni euro risparmiato corrisponde una svalutazione del lavoro altrui.

È qui una della maggiori contraddizioni del nostro sistema economico, che consente al mediatore di guadagnare dalla povertà degli uni e dalla giustificata propensione al risparmio degli altri. Non possiamo quindi fare altro che interrogarci costantemente sui nostri acquisti, prendendo scelte che non devono necessariamente essere “fair”, ma quantomeno pienamente consapevoli. 

Leonardo Torelli

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