Cultura e Società Sociologia

Il diritto all’abitare tra crisi e politiche dal basso

In Italia, il diritto all’abitare non è espressamente riconosciuto come un diritto sociale dalla Costituzione. La Corte Costituzionale ha iniziato a definirne i contorni con la sentenza 252/1983, in cui la casa viene riconosciuta come un bene primario per l’individuo.

Quando parliamo di “abitare” però, a cosa facciamo riferimento? Avere un tetto sopra la testa è qualcosa che spesso diamo per scontato, tuttavia, la situazione abitativa italiana racconta molto della nostra società. Proviamo ad adottare uno sguardo complesso per mettere meglio a fuoco una questione che dovrebbe interessare, almeno in teoria, tutte e tutti.

Popolazione a macchia di leopardo

In Italia attualmente la popolazione invecchia e il numero di nuove nascite, con il problema della denatalità, non colma il gap. Il risultato, come mostrano i dati “Popolazione residente” di Istat, è in calo di 180 mila persone. 

La crisi demografica va di pari passo con un fenomeno di spopolamento che colpisce maggiormente alcune aree nel nostro Paese. In modo particolare, meno persone rimangono stabilmente a vivere in Sud Italia e nelle aree interne, ovvero comuni periferici dove i servizi essenziali sono difficilmente reperibili. Questi costituiscono in Italia il 60% della superficie.

Sebbene con dinamiche differenti, questo fenomeno è correlato con quello dell’urbanizzazione, ovvero lo spostamento verso i grandi centri abitati. Come racconta il WWF con i suoi report “Urban Nature”, questo processo va avanti dal 1951 e ha cambiato il nostro rapporto con l’ambiente, naturale e artificiale.

Negli anni la popolazione è sicuramente aumentata grazie a migliori aspettative e qualità di vita, ma questi fenomeni hanno generato uno squilibrio di densità abitativa in Italia. Il numero di abitanti presenti in un chilometro quadrato di territorio è nettamente superiore nelle zone limitrofe alle città e nelle città stesse, diventate sempre più punti nevralgici di attrazione per abitare stabilmente, mentre altre aree rimangono vuote.

Case private…

La concentrazione della popolazione nei centri abitati fa parte del processo di gentrificazione, in inglese “gentrification”. Il termine fu coniato negli anni Sessanta del Novecento dalla sociologa Ruth Glass per riferirsi a cambiamenti del tessuto urbano per cui, con l’espansione del tessuto metropolitano, i quartieri popolari vengono resi più borghesi.

Una prima discriminante che emerge in questo contesto è quella della gestione del mercato immobiliare in Italia. Nel panorama del welfare europeo, il nostro Paese si colloca nel modello “mediterraneo” o familista: in questo assetto sociale e culturale, la famiglia è intesa come fornitrice di cura e assistenza alle proprie componenti, mentre lo Stato assume un ruolo marginale. Si tratta di una forma di sussidiarietà passiva in cui ricade anche il welfare abitativo.

A partire soprattutto dagli anni Novanta, nel nostro Paese si è vista una libertà nella gestione di tale mercato che ha portato a una speculazione edilizia e al consumo del suolo in aree metropolitane soprattutto al centro-nord. L’assenza di una regolamentazione attraverso le politiche pubbliche ha fatto sì che in Italia si sia maggiormente diffuso il concetto di proprietà immobiliare rispetto all’affitto. 

Secondo i dati Istat, 18,2 milioni di famiglie italiane (il 70,8% del totale) sono proprietarie della casa in cui vivono, mentre 5,2 milioni (20,5%) sono in affitto e 2,2 milioni (8,7%) hanno un’abitazione in usufrutto o a titolo gratuito. Una larga parte delle persone che possiede una casa, però, non vive in uno spazio sufficientemente ampio per il proprio nucleo familiare.

La proprietà, passaggio quasi obbligato nel sistema di privatizzazione delle case, non è accessibile a tutte le persone. La percentuale di persone che vivono in affitto o a titolo gratuito è molto inferiore alla media dei paesi europei, che si attesta al 30% secondo i più recenti dati Eurostat. L’affitto dipende dalle condizioni economiche di partenza: è più diffuso nel quinto di famiglie più povero, dove la percentuale di affitto è del 31,8%, mentre scende all’11,3% tra i nuclei più benestanti. A vivere in affitto sono soprattutto persone di origine straniera (in questo gruppo la percentuale sale al 68,5%), le persone sole con meno di 35 anni (47,8%) e le giovani coppie senza figli (39,9%).

Incide ancor più sul divario il fatto che chi possiede una casa spesso può beneficiare di agevolazioni stanziate dallo Stato, come è stato per il Superbonus 110%. Come racconta Valigia Blu, invece, nel 2023 il governo ha deciso di non rifinanziare il contributo all’affitto né il fondo per la morosità incolpevole, che erano gli ammortizzatori sociali rimasti nel settore delle locazioni per permettere a un’ampia fascia di popolazione di accedere alla casa.

… e città esclusive

In questo quadro si colloca la crisi abitativa in cui ci troviamo, tra l’inflazione, il caro bollette, il calo del potere d’acquisto e la mancanza di alloggi a prezzo accessibile. Se il mercato è composto perlopiù da privati e non ci sono grandi regolamentazioni statali, i prezzi rimangono in balia delle oscillazioni.

Di recente, a partire dalla pandemia, si è radicato un problema correlato alla gentrificazione che è quello dell’overtourism. Proprio il Parlamento europeo nella sua ricerca “Overtourism: impact and possible policy responses” ha definito questo fenomeno come il momento in cui il flusso di turismo eccede la capacità fisica o ecologica di accoglienza di una località. Questo fenomeno si può considerare un effetto del turismo di massa, che a livello economico e sociale rende invivibili le città per le persone che le abitano.

Come racconta la giornalista Sarah Gainsforth, piattaforme per affitti brevi come AirBnb hanno favorito l’accoglienza di persone che soggiornano per poco tempo per le nostre città. Questo ha generato, in 15 anni, un aumento dei prezzi degli affitti in numerose città europee, rendendo però inaccessibile la vita alle persone che prima le abitavano a causa dei prezzi degli affitti a livelli proibitivi. 

Il troppo turismo o turismo di massa ha toccato varie località italiane, raggiungendo record nel 2019 con 131,4 milioni di arrivi e 436,7 milioni di presenze (pernottamenti) negli esercizi ricettivi presenti sul territorio nazionale (dati Istat). 

Da un lato, se a una persona che possiede una casa effettivamente conviene affittare su piattaforme simili – infatti in meno tempo guadagna la stessa di un affitto per lungo periodo – con una maggiore garanzia di avere il proprio immobile tutelato dalle usure, perché bisognerebbe affittare diversamente?

Dall’altro, perché non riusciamo a contenere questo fenomeno e lasciamo che solo poche persone possano permettersi di abitare degnamente? 

Quali strade possiamo percorrere?

In questo contesto di privatizzazione, dove l’interesse individuale diventa il centro dell’agire, si stanno aprendo strade alternative che, invece, cercano di riportare al proprio centro la dimensione collettiva dello spazio abitato.

Sono nate e si sono diffuse esperienze abitative alternative come social housing, co-housing e forme di abitare collettivo. A differenza delle politiche abitative tradizionali, sono forme che si basano sulla condivisione di spazi e talvolta anche di tempi di vita. In alcuni casi l’intento è quello di intervenire anche sulla dimensione sociale partecipando attivamente nella costruzione di una comunità, come nel caso del social housing.

Decostruire la visione attuale di abitare, però, non passa necessariamente dall’interno delle proprie quattro mura. L’abitare è anche un segno di appartenenza sociale, un aspetto della propria identità che non è secondario, che rimanda alla condivisione di un quartiere, di una città, e quindi di un’identità sociale. 

Dalle Amministrazioni comunali alle reti di partecipazione, ripensare come abitiamo le nostre città deve partire da chi queste città le vive. Bisogna favorire processi che permettano di mettere a fuoco le esigenze della popolazione, per intervenire con politiche pubbliche mirate. Se il problema è composto, come abbiamo visto, da tante sfaccettature, allora c’è bisogno di creare spazi dove tutte le voci si mettano insieme per parlarne. Un esempio è quello della rete Abitare Stanca / Attiva, un processo nato dall’unione di varie associazioni sensibili a problematiche abitative come l’abitare migrante e quello studentesco, la turistificazione del territorio, i vuoti urbani e l’edilizia pubblica popolare. 

Per costruire città e società inclusive è necessario coinvolgere tutti i soggetti interessati: Pubblica Amministrazione, Terzo Settore, enti privati, università e cittadini, per ripensare la casa come diritto e non come privilegio.

Giulia Greppi

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