Cultura e Società Sport

Olimpiadi o follimpiadi? Dalla tradizione al fallimento

Fra i tanti sconvolgimenti che questo biennio (and counting…) pandemico sta causando, anche le grandi manifestazioni sportive hanno risentito di trasformazioni e ritardi che trovano eguali soltanto negli anni bui delle due guerre mondiali, gli unici intervalli temporali in cui anche gli inamovibili Giochi Olimpici dovettero sospendere la propria cadenza quadriennale.

Mai come in questo 2021 ci siamo trovati, da italiani, ad assistere a successi sportivi nazionali pressoché concomitanti fra loro in diverse discipline, dagli Europei di calcio a quelli di pallavolo, da Tokyo 2020 (differito) al tennis di vertice fino alla Parigi Roubaix di ciclismo, in una lunga estate che si vorrebbe inquadrare in un’ottica di lungo termine per lanciare, fra quattro anni e tre mesi, i Giochi Olimpici Invernali di Cortina 2026.

Scontato poi domandarsi se le gioie derivate da questi trofei appena ottenuti dai nostri portacolori abbiano un’eco più ampia di quella unicamente agonistica; in effetti non serve essere particolarmente ottimisti per rispondere che sì, il contorno dei traguardi sportivi raggiunti di recente diviene certamente più esteso, perlomeno se ci si libera da una chiave di lettura soltanto economica. È ampiamente dimostrato infatti che lo sport giochi un ruolo essenziale come alleato per il benessere e la salute di chi lo pratica ed è logico supporre che, in un’era in cui ci si lascia (fin troppo) influenzare dai propri beniamini, almeno in questo caso vi siano degli ottimi e validi esempi da emulare.

Per quanto concerne invece la pecunia, le prove che vi siano degli strascichi redditizi in termini di ritorno economico sono tutt’altro che scontate,; non solamente in riferimento alle singole medaglie brillantemente conquistate, ad esempio in Giappone, bensì addirittura alla tanto declamata occasione che l’Italia si è assicurata con le Olimpiadi Invernali di Milano-Cortina 2026, impugnate quasi a slogan elettorali quando si stava concorrendo per accaparrarsene l’organizzazione.

Proprio qui infatti sta il nocciolo di queste righe: la risposta su quanto e quale sarà il guadagno per la macchina organizzatrice non dovrebbe costituire il solo parametro per accogliere o meno l’evento. Che fine farebbero altrimenti i valori e i princìpi olimpici che ne sorreggevano lo spirito fin dai tempi dell’antica Grecia? I cinque cerchi a simboleggiare i cinque continenti (con le Americhe unite), intrecciati in una comunione di ideali che lo sport dovrebbe veicolare, possono essere ridotti a un gonfalone di ostilità fra le diverse “patrie” presenti?

A giudicare dallo sfoggio di magnificenza con cui si celebrano le cerimonie di apertura e dallo sfarzo che ne viene esibito, quasi a voler sciorinare al mondo l’orgoglio del Paese ospitante (o peggio dei propri leader in alcuni casi), si direbbe che la gara vera venga corsa ormai sulla pista della politica in un formato degno di un’Expo invece che su quella dell’atletica. Il motto dei Giochi, formulato dal barone Pierre de Coubertin (fondatore delle Olimpiadi moderne nel 1896) “citius, altius, fortius” ossia “più veloce, più alto, più forte” appare quasi come un obiettivo generico per una manovra finanziaria della nazione organizzatrice, fuori luogo così come lo è per il fatto di averlo coniato in latino, mentre si voleva riesumare la tradizione greca dei Giochi dell’Antichità, iniziati addirittura nel 776 a.C.

Ma forse ancora più bizzarro è il fatto che la seconda edizione dei Giochi moderni, quella del 1900, fu proprio inglobata all’interno dell’Expo di Parigi. E come non ricordare di quando nel 1913 sempre de Coubertin decise che il fondo della bandiera olimpica dovesse rimanere bianco, a simboleggiare il colore della pace che ammaina le armi, la stessa pace che nell’estate successiva fu lacerata dallo scoppio della Grande Guerra.

Ritengo che sarebbe un bene, dunque, mantenere lo sport slegato da colori, simboli o velleità nazionali, riportandolo così al suo significato primo, come il termine stesso ne è testimone, dal momento che l’etimologia trae origine da disport, ossia “dipartire” o anche “fuori porta”, simile a quella del termine divertimento, anch’esso nato da dis-vertere ossia “volgere altrove”. 

Insomma, ritrovare la spensieratezza e il desiderio genuino di staccare dalle vicissitudini e rancori quotidiani per trarne giovamento nello spirito e nel corpo e conoscere i propri limiti, tentando di superarli, è ciò per cui lo sport è nato ed è anche ciò verso cui dovrebbe tendere, al di là di patriottismi, ragioni politiche, economiche o propagandistiche. 

Considerando poi che si tratta di discipline che, rispetto ad altre attività, possono essere svolte senza impattanti mezzi di trasporto e senza dispendio energetico che non sia quello fornito dalle proprie abilità, vale la pena di concepire lo sport anche come un modo per ritrovare un allineamento con l’ambiente che ci circonda.

Davide Girardi

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