Economia e Politica Italia

Che farsene del Parlamento

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, elaborata dall’Assemblea nazionale francese nel 1789, definì la legge come l’espressione della volontà generale. Ciò si poté sostenere sia in virtù della natura dell’organo da cui sarebbe stata prodotta, cioè un’assemblea rappresentativa della nazione e alla quale tutti gli uomini formalmente potevano accedere, sia per il suo carattere astratto e generale, che guardava a ciascun individuo allo stesso modo. Tuttavia, per garantirne una provenienza genuina e che non venisse strumentalizzata dai governanti, si ritenne fondamentale anche l’enunciazione del principio di separazione dei poteri: è la Dichiarazione stessa a riconoscere come non possa esistere alcuna Costituzione al di fuori di esso. Insieme agli altri ideali della Rivoluzione, anche questi principi esercitarono un’influenza fortissima nei territori e nelle menti che ne furono investiti. In particolare essi sono divenuti alcune tra le colonne portanti degli edifici costituzionali ottocenteschi e, in misura sicuramente maggiore, novecenteschi. Così, anche la nostra Carta riconosce la separazione dei poteri e prevede che titolare della funzione legislativa sia il Parlamento, rappresentante il popolo sovrano.

Esistono però degli accorgimenti che permettono allo Stato di essere fluido e dinamico nella gestione dei propri apparati e delle esigenze di amministrazione, per cui, pur rimanendo il Parlamento il solo ed unico organo capace di immettere nell’ordinamento permanentemente e di propria iniziativa un atto normativo avente forza di legge, è possibile che anche il Governo ne possa produrre due tipi: il decreto legislativo e il decreto legge. Tuttavia essi sono sottoposti a dei limiti ben precisi. Infatti, per il primo si prevede che all’Esecutivo venga delegato l’esercizio della funzione legislativa solo per tempo limitato, su oggetti definiti e con determinazione di principi e criteri direttivi. Si tratta sostanzialmente di un esercizio vincolato nel contenuto, sindacabile di fronte al giudice costituzionale per eccesso di delega e che solitamente si utilizza per disciplinare esaustivamente e dettagliatamente delle materie di particolare complessità, che richiedono uno sforzo insostenibile per un’aula parlamentare, come per esempio fu per il codice di procedura penale. È bene ricordare anche che il Parlamento può ritirare la delega in qualsiasi momento sia esplicitamente sia implicitamente, normando la materia già delegata.

Il secondo ha invece una natura completamente differente, in quanto prevede che il Governo possa emanare di propria iniziativa provvedimenti con forza di legge, dotati però di efficacia meramente provvisoria, fissata a sessanta giorni. Presupposto fondamentale per la loro adozione è che si tratti di casi straordinari di necessità e urgenza, come ad esempio l’impiego immediato di risorse per soccorrere un territorio colpito da una calamità. Il loro rispetto è importante in quanto si tratta di atti con cui l’organo che detiene il potere esecutivo esercita funzioni proprie del potere legislativo: per questo la Costituzione ritiene necessaria una legge di conversione da parte delle Camere e prevede che, nel caso in cui non sia posta in essere, il decreto perda la propria efficacia ab origine, cioè come se mai fosse stato prodotto. Tale sanzione giuridica altro non è che una conseguenza necessaria della titolarità della funzione legislativa in capo al solo Parlamento.

Eppure le vicende dei vari governi succedutisi nella storia della Repubblica sembrano evidenziare delle prassi in netto contrasto con il disegno costituzionale. In passato destò preoccupazione il fenomeno della reiterazione dei decreti legge, cui pose fine la Corte Costituzionale con una nota sentenza del 1996. Esso consisteva nel rinnovare il contenuto di un decreto legge non convertito dal Parlamento attraverso un altro decreto dello stesso tipo, eludendo così il termine perentorio di efficacia di sessanta giorni e palesando la volontà di non star provvedendo a casi straordinari di necessità e urgenza, bensì a situazioni ordinarie e meritevoli di una stabile regolamentazione.

Altra cattiva abitudine era poi costituita dai cosiddetti decreti omnibus, cioè caratterizzati da un contenuto eterogeneo e vario, che non miravano dunque a disciplinare con urgenza una determinata fattispecie, bensì a risolvere questioni di carattere pratico o politico approfittando di questo strumento dal carattere eccezionale. A onor del vero, il Parlamento stesso ha talvolta utilizzato il medesimo metodo in sede di conversione, in quei momenti che forse si potrebbero definire di debolezza politica: anche qui però la Corte Costituzionale ha infine posto la propria censura.

Inoltre, se anche la reiterazione e l’eterogeneità dei decreti legge sono oramai stati dichiarati costituzionalmente illegittimi, ciò non è sufficiente per frenare l’abuso di questo strumento che dovrebbe avere carattere prettamente eccezionale. Spesso si argomenta a suo favore sul pretesto che il Parlamento sia lento ed eccessivamente macchinoso nel lavorare all’adozione di testi legislativi, ma in realtà altrettanto spesso si dimentica di considerare il fatto che proprio il continuo ricorso ai decreti legge acuisce il problema, dovendo le Camere discutere la legge di conversione immediatamente e comunque – anche se sciolte – non oltre cinque giorni dalla loro pubblicazione, stravolgendone così il normale iter operativo e di lavoro. Basti pensare che, nell’attuale legislatura – i dati si fermano al 31 ottobre scorso – il 41% delle leggi prodotte è composto da leggi di ratifica di trattati internazionali, il 35% da leggi di conversione e solo il 16% riguarda leggi ordinarie. Ciò evidenzia come sia necessariamente compresso il tempo di cui onorevoli e deputati dispongono per la discussione di testi di iniziativa parlamentare: si consideri anche che, nel totale delle parole che compongono le leggi approvate in questa legislatura, solo il 2% riguarda tali leggi, mentre il 70% ha ad oggetto leggi di conversione e testi coordinati.

Parrebbe dunque che, alla luce dei fenomeni cui solo la Corte Costituzionale ha posto rimedio e delle prassi che ancora oggi costituiscono parte del diritto pubblico vigente, il ruolo del Parlamento si stia evolvendo in una direzione forse diversa da quella prevista dall’originario disegno costituzionale, anche a causa della frammentazione e dello scarso consenso della classe politica attuale, che di certo non è in grado di imporre le proprie prerogative in un luogo di dialogo e confronto. Inoltre la pandemia potrebbe porsi come catalizzatore di questa trasformazione, poiché il Governo ha ottenuto un maggior peso istituzionale grazie alla continua vigenza della legge sullo stato d’emergenza, che ne accresce i poteri. Ormai le Camere non sembrano più incarnare quel ruolo di protagonista nel recepimento delle istanze più profonde e pressanti del corpo sociale e conseguente indirizzo del Governo verso le stesse, bensì un ruolo di gregario avente il mero compito di legittimarne l’operato a posteriori. E sicuramente il continuo utilizzo della questione di fiducia, arma potente nelle mani dell’Esecutivo, aggrava le problematiche trattate, oltre a ledere dignità e immagine del Parlamento stesso. Se vi si ricorre con eccessiva frequenza, essa rischia di trasformarsi in uno strumento di ricatto e di pressione indebita verso onorevoli e deputati. Essi sono infatti posti di fronte a un bivio, in quanto alla mancata approvazione del provvedimento, sul quale è stata posta la fiducia, seguono le dimissioni del Governo, con il rischio, sempre concreto in Italia, di scioglimento delle Camere ed elezioni anticipate.

Filippo Frisinghelli

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