Cultura e Società Locale Paesaggio

Sull’abitare la montagna

Flusso di pensieri a partire da un libro in prestito.

Avere un amico che ci consiglia cosa leggere è prezioso ed io posso dirmi fortunata. È molto semplice: il libro arriva tra le mie mani e lo inizio senza fare domande. Solitamente, al termine della lettura, ci scambiamo un paio di messaggi e niente più; un momento importante per fare la chiosa sull’ultima pagina e confermare un’affinità di pensiero. 

L’ultima volta è stato ieri sera; il racconto in questione è “L’ultimo marinaio” di Andrea Ricolfi e la conversazione suonava più o meno così:

Un libro che nella sua semplicità sa emozionare. 
Descrive con così tanto affetto le persone e con così tanto amore il mare (senza per questo tralasciare paure, difetti e pericoli), che mi è sembrato di farne parte. 
Che poi… io, l’immensità del mare, mica la conosco! Eppure era come se riuscissi a percepire la sua maestosità, comparandola a quella delle montagne. 
Quella presenza così importante ha risuonato in me, come se potessi capire… 

La ritrovo ovunque, la montagna, anche in una distesa d’acqua. 

La ricerca di questa immagine nei romanzi è per me, ormai, una di quelle ossessioni che nascono per  un bisogno recondito, non ancora espresso, coltivato senza una meta precisa ma con la fiducia che possa portare lontano. La montagna come un totem, la trottola del celebre film di Nolan: ambientazione di viaggi onirici e soggetto di riflessioni appartenenti alla realtà. 

Se essere travolti da un fiume in piena non vi spaventa, farò un esempio di cosa accade quando, a partire da una storia, si lascia la mente libera di percorrere nuovi sentieri. 

Leggendo “Le otto montagne” di Paolo Cognetti, mi lascio trasportare in un altro mondo, che poi è anche un po’ il nostro. Abbastanza distante da volerlo capire, abbastanza vicino da provare affezione. E’ un racconto che aiuta a riscoprire l’importanza di dare il giusto valore al paesaggio che ci circonda.  

In effetti, l’affermare di essere circondati da un panorama materializza il punto di scollamento tra l’amore innato per il luogo in cui viviamo e i comportamenti scorretti che adottiamo nei confronti dell’ambiente, come fosse altro da noi.  

Il termine panorama definisce in “origine”, è una macchina scenica. Tutto attorno corre un orizzonte da cartolina, naturale e incontaminato, una scenografia teatrale circolare appunto. Una natura così non esiste, per fortuna! Il nostro, quello vero, è un paesaggio culturale; nasce dalla  coesistenza di umano e non-umano. In essa si rigenera e muta nel tempo.  

Al contrario di una tela dipinta, il paesaggio, è vivo, abitato. 

Se è vero che l’Architettura può dirsi essenzialmente l’arte di rendere artificialmente abitabile un luogo in principio inospitale, possiamo in definitiva considerare anche il paesaggio un progetto e identificarlo come la nostra casa. Casa è sinonimo di cura. E’ per questo motivo che è importante ritrovare il senso di appartenenza nei confronti della montagna: per evitarne l’abbandono e preservarla dal tragico destino di assolvere unicamente un ruolo di intrattenimento, anziché di dimora. La nostra presenza può dirsi positiva quando porta con sé attenzioni e azioni di mantenimento e tutela. La “natura” che si riappropria dei pascoli non è a prescindere il bene che vince il male, anzi. Il  rimboschimento senza logiche, ad esempio, oltre a ridurre la biodiversità, non crea un spazio ospitale, cancella luoghi di vita, tradizioni e storia. Non è un processo generativo. 

Il tentativo dell’uomo di addomesticare il paesaggio è così visibile perché si realizza attraverso modificazioni tangibili, ma non per questo, ad esso, è destinato un ruolo passivo. Il luogo dove scegliamo di vivere, infatti, ci conferisce un’identità, senza la quale ci sentiamo snaturati, come un albero mozzato, sradicato e gettato al margine del bosco, senza più un posto. Abitare le Alpi non significa atteggiarsi a montanari e  recitare una parte in un reenactment che, piuttosto che alla realtà del quotidiano, s’addice più ad una manifestazione folkloristica.

La sfida è quella di rendere la montagna uno spazio contemporaneo, adatto ad una vita connessa;  dove la capillarità dei servizi è tra i criteri principali per l’abitabilità. E’ fondamentale la ricerca dei compromessi migliori perché questo “aggiornamento”, volto a trovare dimora alle diverse altitudini, sia un fattore seminale e non un’ulteriore occasione per far terra bruciata, per rendere sterile il terreno brulicante di vita che ci viene affidato. 

In fondo, l’uomo ha da sempre fatto i conti con l’abitare il pendio. Vivere la montagna, lo spiega bene Yona Friedman nei suoi Manuali a fumetti, non significa posizionarsi sul cucuzzolo, ma saper leggere la morfologia, i limiti e le potenzialità di ogni livello, imparare a conoscere i propri vicini ed essere coscienti delle conseguenze che le nostre azioni hanno su chi vive i terreni sopra o sotto di noi. Adottando un progetto olistico che comprenda la natura come uno degli attori del territorio, stiamo certi che saremo più al sicuro. 

Una montagna abitabile è merito di un lavoro di intere generazioni e segno di grande civilizzazione, evoluzione sociale e culturale, che non implica direttamente l’urbanizzazione. Ebbene sì, abitanti della valle, questi pensieri ci riguardano.

Prima di leggere le ultime righe guardate fuori dalla finestra. 

La zona pedemontana non è pianura, non pretendiamo la metropoli. Ascoltiamo lo spazio e troveremo le risposte. Quando vi chiedete perché mangiamo così presto (come le galline), alzatevi di qualche metro alla destra del fiume e aspettate il tramonto guardando il pendio di fronte. Vedrete piano piano stagliarsi su di esso il profilo della montagna sulla quale posate i piedi… e sì, in valle è già buio.  

Valeria Simonini
Foto di Filippo Nardin

© Riproduzione riservata

Condividi se ti è piaciuto:

Similar Posts