Cultura e Società Sport

Jannik, not a Sinner

“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”

A fine 2018 in pochissimi, anche tra gli appassionati di sport, conoscevano un diciassettenne altoatesino di Sesto Pusteria, da giovanissimo promessa dello sci alpino  (campione d’Italia di categoria nel 2008), le cui racchette da discesa si sono trasformate definitivamente in racchette da tennis solamente dopo aver compiuto quindici anni.

Un anno dopo, a dicembre 2019, quel ragazzino da poco maggiorenne veniva insignito dall’ATP (Association of Tennis Professionals) del premio di Newcomer of the Year, avendo scalato la classifica mondiale dalla posizione numero settecento alla numero settantotto nell’arco di soli dodici mesi, con un balzo che corrisponde a un effettivo ordine di grandezza sia in senso letterale che agonistico. Altri trecentosessantacinque giorni e il ragazzo avrebbe completato la metamorfosi passando da essere inquadrato come una promessa, ad essere annoverato come vera e propria realtà, grazie al primo titolo professionistico nel circuito maggiore conquistato nella capitale bulgara di Sofia.

Se il peso maledetto delle aspettative costituisce un pericolo in grado da solo di spegnere astri nascenti di ogni nazione – basti pensare a Gasquet nel tennis – è senz’altro un peso di diversa tipologia quello che di recente sta appesantendo l’immagine del diciannovenne pusterese. Infatti da qualche giorno ha destato indignazione la decisione di trasferire la sua residenza fiscale a Montecarlo, come già usanza di tanti campioni dello sport, da Djokovic ad Alberto Tomba, tanto per citarne alcuni.

Improvvisamente il ragazzo freddo e posato che sui campi da tennis e nella preparazione ai tornei opta sempre per la scelta più ragionata viene bollato e gettato in malo modo nel calderone dei veri o presunti “furbetti” del fisco et similia, con tanto di articoli anche da parte di testate giornalistiche di prestigio in cui, se non lo si accusava apertamente, quantomeno gli si faceva una bella predica.

Una pletora di parole moralmente ineccepibili per dimostrare che la sua scelta, ammesso che sia stata puramente sua, visto l’ingombrante entourage che ormai lo segue, fosse dettata dall’avidità di denaro o, se non altro, da una mancata generosità nei confronti del suo Stato, l’Italia, che lo ha cresciuto fino all’anno scorso. 

Ebbene, proprio qui sta il punto: dall’anno scorso infatti Jannik si allena e soprattutto vive effettivamente a Montecarlo, ma le ragioni, per uno che ambisce a diventare un campione, sono ben diverse da quelle indicate dai giornalisti di varie testate. La ragione preminente (come spesso accade) è anche la più semplice ossia – per uno sportivo che vuole raggiungere il livello dei migliori del mondo – quella di potersi allenare coi primi della classe.

Detto questo, non c’è bisogno di teorie del complotto per comprendere che la città che offre di più sul piano agonistico è proprio quella monegasca, dal momento che ivi risiedono e si allenano più top50 che in ogni altra città e non è un caso se, ancora in tempi non sospetti, Sinner avesse dichiarato di aver fatto un salto di qualità mentre i tornei erano sospesi per Covid, grazie alle intense sessioni di allenamento con un tale Novak Djokovic, il numero 1 della classifica ATP.

Pagare le tasse in Italia sarebbe meglio? Certo, ma per chi? Per noi che parliamo da residenti in questo Paese, certamente. Ma per uno che vive sei mesi all’anno all’estero e che per i restanti sei mesi è in aereo tra un continente e un altro a fare incetta di tornei internazionali? Sarebbe già differente, quantomeno.

In effetti, non è troppo dissimile dall’annosa questione della fuga dei cervelli, se ci pensiamo: quando un ricercatore viene ingaggiato al MIT o all’Università di Cambridge o meglio ancora al CERN e si trasferisce quindi in USA o in Inghilterra o in Svizzera, gli abbiamo mai fatto la morale per il fatto di aver cambiato residenza?

Piuttosto, sarebbe doveroso domandarci che cosa ci manca per poter garantire la stessa offerta qui in Italia, anziché alimentare le polemiche nei confronti di chi sceglie di puntare al massimo.

Purtroppo, almeno per il momento, l’Italia offre meno di altre nazioni, ma, onde evitare i soliti annunci al disfattismo, è bene specificare che qualcosa sta cambiando sia dal punto di vista sportivo, sia sul fronte della ricerca scientifica.

Nel mondo del tennis infatti, il movimento azzurro sta vivendo un periodo di straordinaria ascesa, con ben quattro giocatori nei primi cinquanta del mondo (solo la Francia ci supera) e con uno sviluppo importante di centri qualificati e di appetibilità internazionale (tant’è che nel 2021 le ATP Finals per la prima volta sbarcheranno nel nostro Paese, nel Pala Alpitour di Torino). 

Sul filone della ricerca scientifica invece è interessante ascoltare una fonte che da sola vale più di mille speculazioni, vale a dire una delle donne più influenti del panorama scientifico mondiale (al settantottesimo posto nella classifica Forbes sulle donne più influenti del pianeta), rispondente al nome di Fabiola Gianotti, prima donna presidentessa e direttrice generale del CERN di Ginevra (il più prestigioso laboratorio di fisica al mondo) e l’unica persona ad essere stata rieletta per un secondo mandato in quest’ultima carica.

Ascoltando diverse sue interviste dà sollievo sapere che l’Italia è tra le prime cinque nazioni per investimenti nei progetti europei di sede a Ginevra e addirittura il primo Paese per quanto riguarda il numero di scienziati che ci lavorano. Si potrebbe obiettare che quanto detto coincide con l’effetto della fuga di cervelli, ma sarebbe opportuno anche tenere conto dell’immancabile controesodo dei ricercatori che, dopo l’esperienza di Ginevra, tornano nelle università italiane spesso come docenti; basti pensare ad esempio al Nobel ligure Carlo Rubbia o ai fisici della famiglia Amaldi (il cui padre lavorò con Enrico Fermi nei cosiddetti ragazzi di Via Panisperna).

Insomma non tutto è così compromesso come all’apparenza potrebbe sembrare e prima di suonare il De Profundis sarebbe auspicabile guardare anche al lato positivo delle questioni, che nei casi descritti non manca affatto.

Qual è dunque la partita più difficile da giocare negli sviluppi a medio termine? Una chiave di lettura per fornire una risposta in termini concreti si può trovare nella disproporzione che sta orientando sempre più i vari filoni della ricerca scientifica verso singole aziende e quindi verso il privato, sottraendo dalla gestione pubblica interi campi di applicazione che invece sarebbero di pubblica utilità.

Indipendentemente dal fatto che possa questo ritenersi giusto o sbagliato, è chiaro che ad essere penalizzati sono quei Paesi (come l’Italia) il cui sistema industriale è fondato sulle cosiddette PMI, ossia le piccole e medie imprese, efficienti certamente sotto diversi aspetti ma non quando si tratta di competere contro colossi internazionali, basti pensare, tanto per rimanere nell’attualità, alla rincorsa per i vaccini, dove ad oggi soltanto l’università di Oxford (con AstraZeneca…) è riuscita ad inserirsi fra i gruppi i cui prodotti sono al vaglio dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali).

Gli esempi potrebbero poi anche proseguire citando Elon Musk e lo spazio (in ambo i significati del termine) sottratto alla NASA, o ancora Google per quanto riguarda i risvolti in ambito sanitario dell’intelligenza artificiale, tutti settori dove le più imponenti realtà private, ad oggi, hanno preso il largo rispetto a quanto invece sono in grado di offrire le università e i centri di ricerca.

Alcune analogie in questo senso ci sono anche per quanto concerne lo sport e quindi il tennis, con particolare riferimento alla distinzione fra accademie private, come la Bollettieri in Florida o la Piatti in Italia, e federazioni nazionali come ad esempio la FIT (Federtennis italiana). Diversamente da quanto scritto poco sopra tuttavia, la tendenza non procede in maniera preoccupante verso uno sbilanciamento a scapito dell’ente pubblico e di questo ci si accorge contando quanti tennisti sono emersi attraverso i centri federali (ad esempio il principale a Tirrenia) rispetto a coloro che non ci sono passati. Siccome il bilancio dei primi quattro tennisti italiani (Berrettini, Fognini, Sonego e Sinner) è di perfetta parità, non si può dire vi sia una sproporzione. 

Il rovescio della medaglia sta però nel fatto che i centri d’élite nazionali sono anche nazionalisti, nel senso innocuo del termine in questo caso, dal momento che non accolgono tennisti stranieri per ovvie ragioni, essendo improntati sulla crescita delle giovani promesse del proprio Paese. Tuttavia quando una promessa compie finalmente il salto di qualità e di età, per continuare il perfezionamento è costretto a confrontarsi non più con l’élite nazionale bensì con quella mondiale e se quest’ultima fa riferimento a una specifica località (in questo caso Montecarlo), la logica vuole che la scelta di trasferirvisi non sia scriteriata, quantomeno sul piano agonistico.

Ad ogni modo, non è impensabile che, da qui a pochi anni, un polo di attrazione internazionale, appetibile anche ai top10, possa prendere consistenza dove attualmente sorge il Piatti Tennis Center di Bordighera, già trampolino di lancio dello stesso Sinner nonché di Milos Raonic (ex numero cinque mondiale). A quel punto sarei pronto a scommettere che anche la tanto rimproverata residenza di Jannik rientrerebbe nella Penisola. 

Nel frattempo non gli si può che augurare di tagliare i migliori traguardi possibili, a partire magari da una medaglia olimpica a Tokio 2021 dove, perché no, potrebbe mettere tutti d’accordo se per lui suonasse l’inno di Mameli e sventolasse il tricolore.

Davide Girardi

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