Cultura e Società Sociologia

Pornografia del dolore nei reati di violenza di genere: quando l’informazione si focalizza sul dito oscurando la luna

Frequentemente testate giornalistiche, programmi televisivi e pagine social adottano un approccio che fa della tragedia, del dolore e del disagio il mezzo attraverso il quale attirare l’attenzione del pubblico. Si tratta della c.d. “pornografia del dolore,” una rappresentazione sensazionalistica della sofferenza umana, offerta senza perseguire un reale scopo informativo o di sensibilizzazione.

Una rappresentazione che si pone in netto contrasto con i principi deontologici contenuti all’interno del Testo unico dei doveri del giornalista e del Manifesto di Venezia e che, evidenziando solo gli aspetti più curiosi, intimi o macabri delle vicende trattate, provoca una serie di effetti negativi che toccano le persone direttamente coinvolte nei fatti e la società nel suo complesso.

Reati di violenza di genere e pornografia del dolore

Con riferimento ai reati di violenza di genere, questo approccio spesso si traduce in una spasmodica ricerca di particolari relativi non solo agli episodi di violenza, ma anche alla sfera personale della vittima e del colpevole del delitto, venga esso qualificato quale reato di molestia, atti persecutori, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, abusi familiari, violenza privata, violenza sessuale o omicidio. 

Questa spettacolarizzazione del dolore, ottima per incrementare l’audience, offre così una narrazione che, invece di analizzare il macro fenomeno sistemico e strutturale della violenza di genere, si concentra in maniera malsana sui dettagli di singoli casi di violenza, che divengono alcunché di eccezionale.

Colpevolizzazione e vittimizzazione secondaria

La pornografia del dolore, talvolta spacciata per un “dare voce a chi altrimenti non l’avrebbe”, scavando nella vita della vittima, provoca l’emersione di particolari tratti della sua personalità, idee o condotte anche non strettamente legate al caso di violenza, che spesso rendono le notizie equivoche o fuorvianti

Questo fornisce ad un pubblico, per sua natura curioso, elementi sui quali esprimere opinioni senza reale cognizione di causa. E spesso tali giudizi si concentrano più sulla responsabilità della vittima -reale o presunta-, anziché su quella dell’autore del reato.

Costringendo così la persona offesa a scontrarsi con accuse prive di fondamento, si induce la stessa a rivivere traumi già sofferti e, quindi, a subire la c.d. “vittimizzazione secondaria.”   

Va peraltro segnalato che tali atteggiamenti vengono perpetrati anche in sede giurisdizionale. Gli operatori del diritto, a cui spetta l’arduo compito di bilanciare esigenze istruttorie, ossia l’accertamento dei fatti in causa, con la necessità di tutelare i soggetti più vulnerabili, talvolta manifestano resistenze all’eliminazione di argomentazioni discriminatorie o aderiscono, anche inconsapevolmente, a stereotipi sessisti.

Questi meccanismi provocano nelle vittime una totale mancanza di fiducia nelle istituzioni e le disincentivano a segnalare abusi e violenze.

La deumanizzazione del colpevole

Altre volte, in questa mercificazione del dolore, la persona colpevole -o presunta colpevole-, venendo descritta come un pazzo violentatore, feroce mostro assassino o pericoloso animale irrazionale, subisce un vero e proprio processo di deumanizzazione

A questo consegue un’ulteriore violenta reazione, da parte della società civile, rispetto al trattamento del soggetto indagato, imputato o dichiarato colpevole, contrastante con i fondamentali principi della presunzione di non colpevolezza, dell’umanità della pena e della sua finalità rieducativa. Espresso il verdetto popolare, la conduzione, in sede giurisdizionale, di un’attenta e completa istruttoria e l’emersione di circostanze giuridicamente rilevanti appaiono superflue. D’altro canto, visto che i colpevoli di reato sono bestie irrimediabilmente corrotte che non potranno mai reintegrarsi nella società, diviene del tutto inutile investire in percorsi educativi per uomini violenti.

Un approccio che, anche in termini di utilità sociale, si pone in contrasto con quanto più volte acclarato dalla letteratura giuridica. I trattamenti ingiusti, crudeli o degradanti contribuiscono infatti ad alimentare un clima di odio e vendetta, che, a sua volta, potrebbe causare nuovi cicli di violenze anche dopo lo sconto di pena.

Questa circostanza, in un contesto sociale bombardato da notizie sensazionalistiche, conduce a ritenere che unica soluzione al fenomeno della violenza maschile contro le donne sia l’inasprimento delle pene, mai ritenute abbastanza severe. Tuttavia gli interventi legislativi volti ad aumentare le pene edittali, ovverosia i limiti di pena minimo e massimo previsti dalla norma penale, per i reati di violenza di genere non costituirebbero un efficace deterrente. Infatti, i perpetratori di violenza, soggetti a dinamiche sociali e culturali radicate su più livelli di complessità, tendenzialmente non ponderano razionalmente le conseguenze penali delle loro azioni.

Deumanizzare quindi non è solo intrinsecamente sbagliato: l’errore, la cattiveria, la malattia e la violenza, come il rispetto, la cura, l’educazione e la rieducazione, sono connaturati all’essere umano. Negare l’umanità del reo equivale ad innalzare un muro impenetrabile tra i mostri e gli altri. E questo permette di deresponsabilizzare un’intera società che, invece di concentrarsi sulle possibili modalità di risoluzione di un problema strutturale, viene sollevata dall’onere del cambiamento.

Mettere a fuoco la luna, non il dito

Affrontare la questione della violenza di genere richiede riflessioni che vadano ben oltre le riforme del sistema penale.

In una società sì in mutamento, ma ancora legata, anche nella sua parte femminile, a costrutti sessisti, maschilisti e patriarcali, la necessità è quella di concentrarsi sulla sensibilizzazione e l’educazione al rispetto, all’affettività e alla sessualità. E di fronte ad un problema come quello della violenza di genere, un’informazione al pubblico seria, equa e costruttiva assume un ruolo fondamentale per il cambiamento sociale.

Assia Zoller

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