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Kamala Harris non è ‘mulatta’: L’eredità coloniale nel discorso italiano sulle persone di razza mista

Con l’Amministrazione Biden ormai prossima all’insediamento, vale la pena di riflettere sull’assoluto elemento di novità nella prossima Presidenza degli USA. Ancor più della vittoria di Joe Biden, infatti, ha fatto discutere l’elezione alla Vicepresidenza di Kamala Harris e l’entusiasmo che l’ha circondata. L’opinione pubblica mondiale si è divisa tra chi enfatizza il forte significato simbolico della presenza di una donna nera nella West Wing e chi invece sottolinea il falso progressismo di tale evento, visto il background politico di Harris, definito da alcuni addirittura “reazionario”.

Tuttavia, va sempre ricordato che negli Stati Uniti, un Paese complesso, macchiato dal passato schiavista e segregazionista, dove il razzismo sistemico è una realtà istituzionalizzata, i simboli hanno la loro importanza.

Se pensiamo che il diritto di voto divenne effettivamente esercitabile dagli afroamericani solo nel 1965, con la promulgazione del Voting Rights Act, la portata storica di figure come la Vicepresidente Harris o il Presidente Obama appare sicuramente più chiara. Harris, inoltre, incarna perfettamente l’ideale statunitense del melting pot. Nata da genitori immigrati negli Stati Uniti dalla Giamaica e dall’India, la Vicepresidente è una delle persone dette mixed-race o biracial nel mondo anglosassone: individui le cui origini non sono riducibili ad un unico gruppo etnico e che, pertanto, hanno esperienze diverse dalle altre minoranze. 

Nel nostro Paese, dove razza ed etnia non vengono usati come indicatori demografici, il dibattito attorno alla figura di Kamala Harris è stato semplificato e decontestualizzato. Abituati come sono a considerare donne in posizioni di potere, specialmente se non bianche, come anomalie di per sé, molti commentatori nostrani faticano a cogliere il punto della questione, che non riguarda solo l’identitá di Harris, bensí cosa essa significhi alla luce del contesto americano.

Nell’ambito di questa discussione de-istoricizzata, la Vicepresidente eletta è stata recentemente protagonista di uno spiacevole episodio mediatico. In un titolo di Libero, il suo nome è stato infatti sostituito dall’epiteto “la vice mulatta di Biden”. Alle proteste sollevatesi contro la discutibile scelta semantica, per la verità piuttosto tiepide sia rispetto a casi nazionali analoghi sia, soprattutto, rispetto a quanto sarebbe accaduto all’estero, il direttore Senaldi ha risposto invocando, come di consueto, la famigerata dittatura del politicamente corretto. Non contento, ha poi arricchito la sua disamina antropologica definendo la Vicepresidente eletta “meticcia”, in quanto “mulatta” sarebbe da riservarsi specificamente a prole in parte bianca. Insomma, la precisione innanzitutto.

Il fatto che la vicenda sia passata relativamente in sordina è dovuto anche alla peculiare amnesia storica che caratterizza la società italiana.
A differenza degli Stati Uniti, dove il passato grava tuttora sulle spalle della nazione come un bagaglio concreto e ingombrante, il nostro Paese ha notoriamente operato una rimozione dei propri ricordi più scomodi, specialmente per quanto riguarda la partecipazione alle atrocità del colonialismo europeo in Africa. Episodi del genere, invece, dovrebbero offrire uno spunto per continuare la riflessione sul razzismo che ha macchiato anche la nostra storia, sortendo effetti a lungo termine che rifiutiamo di vedere. Mentre nei Paesi anglosassoni razza ed etnia vengono comunemente annoverati tra i descrittori statistici della popolazione, tanto che indicare il proprio gruppo etnico di appartenenza è una procedura di routine in qualsiasi questionario, in Europa continentale questa informazione resta una sorta di tabù.

Nonostante sia importante puntualizzare che il concetto di razza non ha alcun fondamento biologico nella specie umana, non si può ignorare il suo ruolo di costrutto sociale, da cui dipendono alcune differenze fondamentali nell’esperienza degli individui. Senza dati sulle etnie presenti nella popolazione, ad esempio, é impossibile descrivere statisticamente le discriminazioni basate sul razzismo sistemico, impedendo così qualsiasi intervento costruttivo sul problema. Per di più, l’ingenuità storica che, in modo più o meno deliberato, rifiuta di accantonare il mito degli “italiani brava gente” contribuisce ad invisibilizzare le esperienze degli italiani, cittadini e residenti, posizionati al di fuori del privilegio bianco. Accettare il confronto con la nostra eredità coloniale può aiutarci a capire cosa si cela dietro un linguaggio, quello che sentiamo abitualmente usare per le persone di razza mista, che veicola ancora una mentalità profondamente razzista. 

Negli Stati Uniti, l’identità degli individui di background misto nero e bianco è gravata dal trauma collettivo della schiavitù nel passato e dal problema del colorismo nel presente. La tradizione di attribuire uno status più elevato, per quanto possibile nel contesto schiavile, agli individui nati dai frequenti stupri delle schiave da parte dei padroni bianchi ha lasciato nella stessa comunità nera una fascinazione verso le carnagioni più chiare ed altri elementi di racial ambiguity.
La maggiore prossimità allo status di “bianco” o la doppia discriminazione in caso di origini miste ma non bianche, sono i motivi principali della peculiarità dell’esperienza delle persone mixed race. La situazione nella società italiana presenta similitudini, ma anche differenze rispetto a quella statunitense. Un’importante somiglianza risiede nel contesto storico. Anche nell’esperienza coloniale italiana è infatti evidente la dimensione sessuale della violenza inferta ai corpi neri dai colonizzatori bianchi.

Recentemente, il ritorno del movimento Black Lives Matter in chiave globale ci ha costretto a confrontarci con il nostro passato coloniale, specialmente con l’abuso sessuale sistematico delle donne e bambine etiopi, forse l’atrocità maggiormente documentata in questo ambito, anche per via del ricordo illustre di chi non se ne pentì mai. Tuttavia, quegli abusi sono stati spesso oggetto di una narrazione pruriginosa, profondamente indicativa della nostra immaturità sociale nell’affrontare lo stupro come tema politico con importanti conseguenze sociali.

Non è un caso che la ricerca storica sui legami tra colonialismo e razzismo istituzionale nel nostro Paese venga principalmente da studiosi italiani che lavorano all’estero. Angelo Matteo Caglioti della University of California, ad esempio, ha pubblicato un interessante studio sullo sviluppo del razzismo scientifico in Italia, collegando la promulgazione delle leggi razziali del 1938 ad un abbandono della scuola Lombrosiana che aveva dominato il secolo precedente. I seguaci delle teorie di Cesare Lombroso, il criminologo che attribuiva determinate caratteristiche sociali a fattori genetici ereditari, teorizzavano l’esistenza di due razze in Italia: una celtico-ariana prevalente al nord, considerata superiore, e una mediterranea prevalente al sud, di genealogia africana e semitica e per natura arretrata, reputata la fonte di fenomeni come il brigantaggio e la mafia.

Il nazionalismo fascista, che mirava all’omogeneità, si ritrovò così a dover unificare e “purificare” etnicamente la popolazione italiana, recidendo ogni possibile collegamento biologico con i sudditi coloniali. Questa, piuttosto che un improvviso antisemitismo, fu secondo Caglioti la radice dell’arianizzazione degli italiani nel Manifesto della Razza. Ovviamente, dopo la proclamazione della purezza della razza italica, il “meticciato”, cioè la realtà delle unioni miste nelle colonie e della prole nata da esse, divenne un problema non indifferente per il regime. Furono così promulgate, ben prima del 1938, legislazioni allo scopo di impedire la mescolanza razziale. 

Se da un lato la diffusione del “madamato”, ossia di relazioni sessuali tra coloni e donne africane che ben poco avevano di consensuale, non consentiva di impedire la nascita di bambini di razza mista, il regime intervenne nella dimensione giuridica. Nel 1934, la nuova Legge Organica per l’Eritrea e la Somalia negava la cittadinanza a tutti i “meticci” non riconosciuti dal genitore italiano, solitamente il padre, mentre sanciva che i figli di genitori ignoti ma riconducibili alla sola razza bianca per “caratteri somatici ed altri eventuali indizi” venissero dichiarati cittadini italiani per ordinanza del Giudice della Colonia. L’intento segregazionista di questa norma è lampante, così come la genealogia dell’aggettivo “meticcio”, che ancora sentiamo usare in riferimento alle persone di razza mista nei media nazionali.
Il termine deriva dalla zootecnia, come anche “mulatto”, un sinonimo coniato dai conquistadores in America Latina. Il primo indica l’ibridazione di individui di razza diversa; il secondo deriva da “mulo”, la progenie intraspecie per eccellenza. Nell’ambito umano, entrambi denotano in senso stretto l’unione tra un individuo bianco e uno nero, o di altra etnia, piuttosto che di due individui non bianchi. Una sfumatura, questa, comprensibile solo alla luce delle radici dei termini nel razzismo scientifico europeo, che vedeva la razza bianca come quella superiore, l’unica che fosse possibile “inquinare” mediante un’unione mista.

Vista la mancanza di dati statistici in questo senso, non si hanno informazioni chiare su quanti italiani siano di razza mista, per discendenza coloniale o migrante. In ogni caso, la retorica che li circonda si rifà ancora alle idee fasciste sul “meticciato” come minaccia alla purezza della razza. Mentre in USA le persone mixed race si confrontano con problemi come la feticizzazione e la costruzione di un’identità multiforme, gli italiani di razza mista devono affrontare principalmente il linguaggio creatosi attorno al fenomeno migratorio. Argomenti come quello della sostituzione etnica, portati avanti da politici e media nazionali, riecheggiano inevitabilmente le paure razziali che culminarono nel Manifesto della Razza e nelle conseguenti legislazioni durante il periodo fascista.
Anche la vergognosa bufera social scatenatasi pochi mesi fa attorno alla falsa notizia della gravidanza di Aisha Silvia Romano, è frutto di quelle stesse paure, che il radicato ma sotterraneo suprematismo bianco della nostra società nutre verso le unioni miste come fonte di corruzione di un’inesistente purezza genetica.

Per questo è necessario affrontare il linguaggio, che è sempre veicolo delle attitudini, verso le persone di razza mista in Italia, integrando la questione nel più ampio programma di ricerca sulla nostra storia coloniale, un imperativo vitale per fare finalmente i conti con il nostro passato, presente e futuro.

Francesca Di Fazio

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