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Una stessa idea di guerra in Cesare e Bush

Duemila anni e più sono sicuramente un tempo molto lungo, sufficiente per far perdere qualsiasi connessione tra gli eventi accaduti ad una tale distanza. Eppure, forse perché la natura dell’uomo non cambia o lo fa in un tempo ben maggiore, ci sono eventi che presentano degli aspetti analoghi.

Intorno al 58 a.C. Giulio Cesare decide di muovere guerra agli Elvezi, popolazione celtica che interessava i confini della Gallia Narbonense, provincia romana corrispondente in larga parte all’attuale Francia meridionale. Le motivazioni addotte dal generale nei suoi Commentarii de bello Gallico, riguardano la presunta bellicosità del popolo nemico e la difficoltà di difendere confini molto vasti e aperti, privi quindi di un possibile ausilio offerto dalla natura dei luoghi, che per giunta offrivano accesso a grandi coltivazioni di frumento, fondamentali per il vettovagliamento di città ed eserciti. Dunque Cesare, evidenziata l’inevitabilità del conflitto, decide di muovere d’anticipo e attaccare gli Elvezi, prima del realizzarsi di un concreto casus belli e scatenando una cosiddetta guerra preventiva, cioè giustificata prevalentemente in ragione difensiva, pur non costituendo la risposta ad un’azione nemica ed anzi essendo nei fatti una guerra di aggressione.

È invece il 20 marzo del 2003 quando una coalizione internazionale voluta e guidata dagli USA dà vita ad un’offensiva militare nei territori dell’Iraq, scatenando una guerra della durata di quasi un decennio, nonostante l’esercito iracheno fosse stato sconfitto solo in qualche mese. Questa guerra fu grandemente voluta dall’amministrazione Bush e fu anch’essa una guerra preventiva, tanto che è ormai entrato nel linguaggio comune parlare di “dottrina Bush” con riferimento a quel tipo di politica estera, per cui, tra gli altri punti, risulta fondamentale attaccare e annientare un nemico prima che con esso si sviluppi un conflitto aperto, cercando di coglierlo impreparato e di limitare così i propri danni.

Si può dunque affermare che il tratto tipico del concetto di guerra preventiva, ravvisabile in entrambi gli esempi proposti, coincida con ciò: attaccare con la massima efficacia un nemico, del quale si ritiene presuntivamente che sia sul punto di compiere a propria volta un attacco, che però non si è ancora verificato, potendo quindi giustificare la propria azione in chiave difensiva. In ciò assume grande rilevanza l’elemento dell’attacco nemico, sotto un duplice profilo: quello della presunzione soggettiva circa la sua inevitabilità e quello del suo non essersi ancora concretizzato.

Questa presunzione, stando al caso romano, è sostenuta da Cesare attraverso varie ragioni, di cui alcune già viste. In particolare egli cerca di evidenziare la bellicosità e la risolutezza degli Elvezi anche attraverso il racconto di avvenimenti all’epoca da poco occorsi. Basti qui ricordare che, stando ai Commentarii, essi, prima di lasciare le proprie terre in cerca di altre maggiormente generose, bruciarono tutte le città, i villaggi e le scorte di frumento non essenziali, per motivarsi ed escludere sin dall’inizio un possibile ripensamento; inoltre vengono anche descritte le devastazioni che compirono nelle loro marce ai danni della tribù gallica degli Edui. Del resto bellicosità e risolutezza sono caratteristiche che possono ragionevolmente suscitare preoccupazione e di ciò si mostrò attenta anche l’amministrazione Bush nel momento della decisione di invadere l’Iraq. Infatti gli USA sostennero ciecamente la presenza di armi di distruzione di massa nel Paese arabo, sfruttarono l’argomento del presunto appoggio al terrorismo da parte dell’allora governo iracheno e non mancarono nemmeno di citare l’oppressione da esso causata al suo popolo, unitamente alla relativa necessità dell’adozione di un sistema politico democratico, che avrebbe anche garantito una maggiore stabilità militare nell’area. Queste circostanze nell’un caso come nell’altro servirono per inculcare nell’opinione pubblica l’idea che una guerra fosse inevitabile, in quanto determinata dalle condotte del nemico, e che l’attesa avrebbe soltanto determinato un vantaggio per esso.

L’assenza di una precedente aggressione è invece rilevante per escludere la sussistenza della legittima difesa. A questo proposito essa deve avvenire in risposta ad un attacco armato e deve presentare i caratteri dell’immediatezza, necessità e proporzionalità, volendosi attenere al diritto internazionale vigente. Nulla di tutto ciò è ravvisabile nel caso americano, essendo la guerra in Iraq sorta per un’aggressione unilaterale da parte degli USA, giustificata sì in un’ottica difensiva – si è parlato anche di legittima difesa preventiva – ma pur sempre sulla base di presunzioni e senza alcuna concreta offesa di cui potesse costituire una reazione immediata e proporzionata. Difficile è invece applicare il diritto internazionale attuale all’epoca romana, oltre che per il fatto di essere posteriore, anche per quello di esserlo da sì lungo tempo, ma rimane che il concetto di legittima difesa, così come esplicato, sembra riassumere concetti ben chiari anche all’ambito latino. In ogni caso il suo presupposto fondamentale è il precedente attacco, che non ci fu. Infatti è vero che non molto tempo prima della guerra Romani ed Elvezi si erano scontrati in una piccola scaramuccia, ma è altrettanto vero che questi ultimi abbandonarono il loro proposito di attraversare – pacificamente, secondo quanto riporta lo stesso Cesare – le terre romane e si diressero per altri territori. Dunque, quando il generale romano decise di muovere loro guerra, non lo fece in risposta a quel determinato evento, che comunque egli stesso volle e provocò, come affermato nel de bello Gallico, ma all’unico scopo di condurre una guerra di aggressione, per invadere le loro terre e fondare le basi e i pretesti per future campagne militari.

Proprio con ciò si pone in evidenza un ultimo e fondamentale punto di contatto tra Cesare e Bush e del loro concetto di guerra preventiva: per motivi diversi, né l’uno né l’altro poterono infatti deliberare un’aperta guerra di aggressione e, dovendole dunque trovare un’altra veste in cui calarla, ritennero entrambi che la più calzante fosse proprio quella che permetteva loro di apparire soggetti privi di un reale potere decisorio su di essa ed anzi costretti ad ergersi a difensori della patria e dei suoi interessi.

Filippo Frisinghelli

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