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Partendo dalle basi: la Doppia Assenza

Scrivere riguardo al fenomeno delle immigrazioni-emigrazioni è sempre una questione complicata, perché in un modo o nell’altro, volontariamente o meno, si vanno a toccare delle corde ben tese all’interno della vita di ognuno di noi. Non comprendo il motivo, o meglio, cerco di dimenticarlo, della ragione per la quale chiunque abbia voce in capitolo a riguardo. 

Mi sembra dunque interessante fornire elementi di discussione che possano essere interessanti e contribuire al dibattito in maniera costruttiva e positiva, andando a riprendere le parole del sociologo algerino Abdelmalek Sayad (1933-1998), che ha dedicato la sua vita allo studio delle immigrazioni-emigrazioni.

L’emigrato è l’uomo con due luoghi, con due paesi. Deve metterci tanto qui e un tanto là. Se non fa così è come se non avesse fatto nulla, non è nulla” racconta Sayad, dando voce alle parole di un immigrato algerino in Francia, ne “La Doppia Assenza, dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato”, una raccolta di vent’anni di ricerca e studi sul “fatto sociale totale” (A. Sayad) delle immigrazioni-emigrazioni.

Sayad  è stato sia sociologo che immigrato, vivendo sulla sua stessa pelle una condizione che si manifesta in ogni ambito e situazione di vita. Senza mezzi termini, l’ex direttore di ricerca del Centre national de la recherche scientifique di Parigi spiega chiaramente quella che è la condizione di vita che vive la maggior parte delle persone immigrate: la Doppia Assenza. 

Ma cosa significa? 

In molti, forse, non ne avranno mai sentito parlare. In effetti, in televisione, sui social media e spesso anche nella stampa, non c’è tempo, spazio, talvolta nemmeno la voglia, per sviscerare la tematica delle migrazioni e analizzarne gli aspetti più reconditi, ma allo stesso tempo basilari.

Innanzitutto bisogna considerare la vita della persona immigrata, che sovente viene presa in considerazione solo a partire dal momento d’arrivo nel Paese “accogliente”: l’immigrato in Italia viene trattato, nelle interazioni sociali, come tale; ovvero, spesso ci si dimentica della sua condizione, altrettanto importante, di emigrato marocchino per esempio.

Ecco perché la parola migrante, come mi spiegavano con orgoglio i professori del Master sull’Immigrazione che ho frequentato a Venezia, sarebbe da evitare: quella -i e quella -e significano molto, raccontano storie, tristi, felici, di coraggio, di vittoria e di sconfitta.

Non considerare la provenienza della persona immigrata, le sofferenze del distacco, le caratteristiche dette “variabili sociali”(Sayad) che ogni singolo si porta dietro dalla sua esperienza di vita passata, ovvero atteggiamenti e comportamenti sociali appresi nel Paese di origine, è una mancanza enorme. È una mancanza perché porta alla pretesa di una “finta integrazione”: è l’immigrato che deve adattarsi in toto alle condizioni del luogo in cui arriva e ogni suo comportamento verrà considerato come “manchevolezza”, così come la sua eredità culturale qualcosa di lontano, degli ostacoli all’adeguamento alla nuova vita.

Ecco, da questa premessa fondamentale evolve il concetto di doppia assenza e doppia presenza di cui sopra.

L’essere umano è costretto a muoversi, lasciare il suo Paese e vivere in uno stato di eterna precarietà, mosso dal mercato del lavoro e, alla radice, dai rapporti di potere vigenti tra le diverse popolazioni, frutto di un sistema capitalista e colonialista che ha dato origine a due diverse condizioni: colonizzati e colonizzatori. Gli abitanti dei Paesi più poveri economicamente raggiungono le società “occidentali”e si collocano, spontaneamente o forzatamente, all’interno del preciso spazio che la società gli riserva ( da La Doppia Assenza).

In questa condizione forzata la persona vive nel paese di origine, in quanto emigrato, un’esperienza di assenza fisica, mentre allo stesso tempo vive l’assenza mentale/morale in quello di arrivo, in quanto immigrato: è in questo modo che si manifesta la Doppia Assenza dell’immigrato-emigrato.

All’interno di queste due condizioni, la persona  è un atopos, spiega Sayad, un “senza luogo”: assente e presente al tempo stesso in due luoghi differenti, senza appartenere veramente a nessuno dei due e vivendo  in posizione intermedia tra essere sociale e non-essere, come sottolinea il collega del sociologo, Pierre Bourdieu. 

Questo vale in particolare nell’immigrazione tra Paesi ma anche in quella regionale, all’interno dello stesso stato.

Così, la persona immigrata si ritrova a doversi continuamente reinventare, subendo l’effetto dell’etnocentrismo della società accogliente, in particolare di quelle dominanti: è all’immigrato, ci spiega Sayad, che tocca fare tutti gli sforzi. All’immigrato, a maggior ragione se da poco tempo o se appartenente a ceti sociali “bassi”, è richiesta un’ iper-correttezza sociale, continua Sayad: la questione morale e la sua condotta sono quelle che preoccupano più di tutte la società di arrivo.

Parimenti, l’emigrante vive una condizione di cambiamento all’interno delle dinamiche famigliari di origine, una condizione di distacco, di sofferenza e di mancanza. Cambia il modo di vedere la società di origine e il ritorno in patria, dopo anni di immigrazione, diventa a lungo andare motivo di scontro interiore. “Ci torno solo in vacanza, perché non riuscirei più a viverci” quante volte mi è capitato di sentire amici africani parlare in questo modo del proprio Paese: un’attrazione e pensiero costante mentre si è nel Paese d’immigrazione, sfatata dopo poche settimane di permanenza nel Paese di origine.

Notiamo come parlare di migrazioni significhi, come già detto, parlare di un fatto sociale che comprende ogni aspetto della vita della persona, ogni sfumatura, dalla religione  al lavoro, alla sfera degli affetti e così via. 

Parlare di migrazioni significa parlare di volti, di persone e richiede grande attenzione e cura, oserei dire delicatezza. La trasformazione delle agende sull’immigrazione europee in una tematica politica da salotto televisivo ha danneggiato gravemente e irrimediabilmente il dibattito sulla gestione del fenomeno.

Altresì, è ahimè doveroso riconoscere come le politiche migratorie europee siano sempre andate, più o meno esplicitamente, verso una direzione che Sayad definisce nelle sue ricerche con grande freddezza: “l’emigrazione-immigrazione è il prodotto e l’espressione più evidente del sottosviluppo, che può essere spiegata solo come uno degli effetti più rilevanti della relazione di dominio dei paesi ricchi (paesi d’immigrazione) sui paesi poveri (d’emigrazione). E, oltre a ciò, che sia, per riflesso di ritorno, un fattore di sottosviluppo, in quanto contribuisce a mantenere la relazione di dominio di cui è il prodotto. […] L’emigrazione-immigrazione è figlia diretta della colonizzazione che genera essa stessa sottosviluppo”. 

La speranza, alla fine, è che l’immigrazione-emigrazione stessa diventi veramente l’occasione di sovversione (Salvatore Palidda, introduzione a “La Doppia Assenza”) e di cambiamento, grazie al desiderio di emancipazione che la contraddistingue, con una buona dose di voglia di farcela e un  pizzico di senso di giustizia.

Federico Uez

© Riproduzione riservata

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