La libreria di passaggio

Acquadolce

Che voce avrebbe un demone se fosse costretto a restare incarnato all’interno di un essere umano? Come leggerebbe il mondo circostante? Come si rapporterebbe con le persone destinate a incontrarlo sulla propria via?

La libreria di passaggio, questo mese, vi porta proprio nei meandri dell’animo umano, ad incontrare non un demone solo, ma addirittura tre. Almeno questo è ciò che ci racconta Akwaeke Emezi nel suo romanzo di esordio “Acquadolce”, pubblicato in Italia da Il Saggiatore. Un romanzo molto particolare, che si preannuncia tale fin dalla copertina, studiata con grande cura nell’edizione italiana perché richiami le spire di un serpente. Il serpente è un simbolo fondamentale all’interno di questo libro e richiama una delle divinità più importanti all’interno del pantheon tradizionale nigeriano, da cui Emezi pesca a piene mani. Vale la pena, forse, riportarvi subito, qui in apertura, le prime righe del romanzo, così da darvi un assaggio della scrittura di Emezi e del tenore del romanzo:

“Noi
La prima volta che nostra madre venne a prenderci strillammo.
Noi eravamo tre e lei era un serpente, avvolta in spire sulle piastrelle del bagno, in attesa. Ma avevamo passato l’ultima manciata di anni credendo al nostro corpo – pensando che nostra madre fosse qualcun altro, una umana smilza con gli zigomi imbellettati e grandi occhiali a fondi di bottiglia. E così strillammo.”

Il “noi” con cui si apre il capitolo non è un titolo, ma il narratore. “Noi” sono i tre demoni che abitano il corpo di Ada, adolescente nigeriana che a diciotto anni si prepara a lasciare la propria terra per andare a studiare in America. Si tratta di quelli che nella tradizione nigeriana vengono chiamati ọgbanje, vale a dire spiriti malvagi, che sono soliti tormentare la persona posseduta spingendola a condurre una vita di eccessi e autolesionismo, con il fine ultimo di condurla alla morte.

Gli ọgbanje, tradizionalmente, sono considerati responsabili della morte in culla o in tenera età di bambini, poiché raramente si ritiene che un essere umano possa arrivare alla maturità, essendone posseduto. In letteratura si trovano svariati riferimenti a questo fenomeno della cultura nigeriana, in primo luogo nel famosissimo “Le cose crollano” di cui abbiamo parlato in passato, ma mai era stato descritto con tanta accuratezza e, se così vogliamo dire, introspezione.

Il romanzo procede dunque nel narrarci della vita di Ada, della sua normalissima quotidianità da adolescente africana in America, le feste, gli eccessi e i primi amori, anche se di normale non c’è proprio nulla, dal momento che la voce narrante non è praticamente mai Ada stessa, ma per l’appunto i suoi ọgbanje.

Vi stiamo dunque suggerendo una letteratura dai tratti soprannaturali questo mese? In verità solo in parte. Certo, la storia di Ada può essere accettata com’è scritta, sospendendo l’incredulità per accogliere un insieme di credenze e tradizioni che non ci appartengono e che ci appaiono persino crudeli. Oppure possiamo cercare di rileggere la narrazione con occhio occidentale e dare alla situazione vissuta da Ada un altro nome, che è disturbo dissociativo dell’identità, quello che una volta chiamavamo disturbo di personalità multipla.

È lampante, infatti, per chiunque abbia qualche conoscenza del fenomeno, quanto le descrizioni di Emezi collimino con le caratteristiche riconducibili a questa diagnosi. Un disturbo, peraltro, fortemente connesso al trauma, fonte della dissociazione, motivo per cui il lettore versato in psicologia attenderà con un misto di trepidazione e ansia di scoprire quale trauma nel passato di Ada abbia generato questa separazione.

Il lettore occidentale però è avvisato: Emezi non ci sta a ricondurre tutto ciò ad una patologia. Infatti, per quanto oscura, la credenza negli ọgbanje dona alla persona che soffre per causa loro un’aura spirituale, quasi che l’essere posseduto li elevasse oltre l’umano e il materiale verso un piano più divino. Nulla che vada curato, dunque, ma anzi assecondato e accolto, ovviamente una volta che l’individuo riesce a entrare in contatto profondo con il proprio ọgbanje e a comunicarci in maniera costruttiva.

Questo è il primo punto che abbiamo trovato particolarmente interessante nell’affrontare questa lettura davvero particolare. Il concetto di malattia mentale presente nella nostra cultura non è universale, per quanto spesso dall’alto dei nostri studi ce ne dimentichiamo. Non è nemmeno rimasto immutato nei secoli, anche se probabilmente la cultura europea ha sempre avuto un approccio più aggressivo di altri nei confronti del diverso. Il nostro modo di classificare e trattare il disagio psicologico e i disturbi psichici spesso non ha una vera efficacia su chi proviene da culture altre.

Parecchi studi, partendo dalle idee di Fanon in poi, hanno verificato come la psicoterapia spesso non riesca a ottenere risultati davvero soddisfacenti su individui appartenenti a popolazioni di origine africana o asiatica, mentre invece ha una grande percentuale di successo sui bianchi occidentali. Questo perché, con ogni probabilità, la cultura e le credenze profonde con cui si viene cresciuti contribuiscono a formare il funzionamento del nostro cervello e dunque tali individui necessitano di strumenti differenti, adatti ad intervenire per guarirli dai traumi subiti.

La medicalizzazione della salute mentale è un tema molto ampio e complesso, che non intendiamo certo discutere in queste poche righe, ma è interessante riflettere su come Emezi affronta il problema di Ada: dove gli interventi medici falliscono la svolta può trovarsi nella spiritualità. Forse la pace può celarsi nell’accettazione consapevole della propria vera natura e nell’ascolto profondo di sé al fine di conoscersi sempre meglio.

Una soluzione da “stregoni”, per molti di noi, ma se si è disposti ad ascoltare e ad accogliere la differente risposta formulata da una cultura molto distante dalla nostra si rivela certamente un viaggio affascinante. Ancora una volta, ci viene in mente un altro libro il cui protagonista ha molto in comune con la Ada di “Acquadolce”, “Una stanza piena di gente” di Daniel Keyes: lì, però, siamo in ambito americano e l’approccio è totalmente incentrato sul lato diagnostico e terapeutico.

La storia di Ada è sicuramente disturbante, ancor più perché Emezi non fa mistero di quanto quest’opera sia autobiografica. Basta andare sulla pagina Instagram di Akwaeke Emezi per notare quanto la descrizione fisica di Ada, comprese le mutilazioni e i tatuaggi, coincida con i segni che si possono vedere sul suo corpo. L’autor, che si identifica come non-binary e in inglese utilizza per sé il pronome “they”, ha usato spesso nel descrivere se stess il termine ọgbanje. Meglio non stare a rifletterci troppo, perché Ada in questo romanzo ha una vita tutt’altro che facile e serena e pensare che molto di ciò sia avvenuto ci ha trasmesso grande tristezza.

Meglio allora concentrarsi sull’apprezzare lo stile narrativo di Emezi, che è incredibile, soprattutto se si pensa che questa era la sua prima opera. La scelta tecnica di narrare la maggior parte delle vicende dal punto di vista degli ọgbanje è geniale e sicuramente molto riuscita dal punto di vista espressivo. Gli spiriti parlano del proprio involucro umano come di qualcosa di altro da sé, di esterno e alieno.

In verità è proprio la loro voce a suonare straordinariamente aliena: il loro modo di pensare, di agire, di organizzare e mettere in connessione gli eventi ci confonde e stupisce. Ogni situazione, anche la più semplice e quotidiana, viene descritta attraverso un linguaggio ricco di riferimenti culturali e spirituali tradizionali, forse l’elemento più ostico per il lettore italiano dell’intero romanzo.

Emezi è assai abile a differenziare le voci dei suoi narratori, tanto che le poche volte che sentiamo finalmente Ada stessa, il suo modo di esprimersi si distingue nettamente da quello dei suoi demoni interiori.

La frammentazione della psiche della protagonista, inoltre, è riflessa anche nella scomposizione della narrazione, non solo in diversi narratori ma anche cronologicamente. La storia non può essere raccontata in maniera tradizionale perché le voci narranti sono di per sé inaffidabili: non tutte sono a conoscenza di tutti i fatti e alcune possono essere bugiarde e omettere deliberatamente alcuni dettagli. Il lettore dovrà fare uno sforzo per ricostruire un quadro veritiero degli eventi, e ciononostante dovrà accettare di non poter avere mai la certezza al 100% che tutto ciò sia avvenuto.

Lo sappiamo, “Acquadolce” non è affatto un romanzo semplice. È intenso, in alcuni momenti molto duro per le tematiche trattate, e richiede al lettore un’attenzione e una partecipazione attiva che probabilmente non si adattano a chi desidera un libro da portare in spiaggia sotto l’ombrellone o con cui rilassarsi sul divano dopo una lunga giornata di lavoro. Tuttavia siamo di fronte a una delle voci di spicco della nuova generazione di scrittori nigeriani, capace di trasportarci in una dimensione lontana con una prosa avvincente e unica, che rimane nel cuore.

Akwaeke Emezi ha già dato prova di un’enorme versatilità, pubblicando con successo tre romanzi per adulti, ognuno di genere differente, due romanzi per ragazzi, una raccolta di poesie e un’opera di non- fiction autobiografica.

In italiano purtroppo, oltre ad “Acquadolce”, possiamo leggere solo un altro dei suoi romanzi, “La morte di Vivek”, che consigliamo sempre caldamente perché ci è piaciuto tantissimo. Se avete voglia di mettervi alla prova e di assaggiare una vera chicca della letteratura africana contemporanea non potete farvi scappare questo libro.

Elena e Manuela

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