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Non esiste giustizia climatica senza diritti umani. Un racconto egiziano

Dal 13 al 20 novembre 2022 ho potuto assistere come observer ai lavori della COP 27 di Sharm el-Sheikh, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. La COP è l’unico momento, l’unica occasione, capace di riunire in un solo posto i rappresentanti degli Stati mondiali e la società civile per discutere e agire concretamente contro la crisi climatica.

Grazie all’associazione trentina Viração&Jangada, io e altri quattro ragazzi siamo volati in Egitto per raccontare cosa stesse succedendo tra i corridoi della COP 27.

Quello che segue è il reportage del momento che più mi ha smosso di tutta la nostra esperienza egiziana.

La People’s Plenary

El pueblo unido, jamás será vencido! People united, will never be defeated!” 

Cantavano così, con il pugno alzato, i rappresentanti della società civile all’uscita della People’s Plenary della COP27. Un fiume in piena, compatto e arrabbiato. 

Sì, perché il 17 novembre, tra un giro di negoziazioni e l’altro, la società civile presente alla COP si è riunita nella sala più grande del centro congressi di Sharm el-Sheikh per discutere di cambiamenti climatici, giustizia climatica e diritti umani. 

La People’s Plenary non è una novità. Già alla COP di Glasgow, nel 2021, i rappresentanti delle constituencies, ossia i gruppi di interesse della società civile che hanno a cuore la causa ambientale, avevano potuto prendere la parola e avanzare delle proposte per promuovere un cambio di marcia nella lotta al cambiamento climatico. 

La People’s Plenary di Sharm el-Sheikh, però, è stata qualcos’altro: il contesto serioso di questa edizione, ospitata in un Paese noto per le gravi violazioni dei diritti umani e la negazione di qualsiasi forma di dissenso, ha conferito alla Plenaria della società civile un significato diverso.

Sì, perché la People’s Plenary è stato uno dei rarissimi momenti della COP 27 in cui la società civile si è potuta radunare liberamente per discutere, proporre, manifestare. Un’opportunità che il governo egiziano difficilmente avrebbe concesso: basti pensare che ogni volta che si entrava o si usciva da Sharm-el Sheikh era necessario passare i controlli delle pattuglie di polizia; in aeroporto, prima di uscire, bisognava sottoporsi a un ulteriore controllo della valigia; mentre a bordo strada, sulle vie principali della città, una fila di guardie armate controllava il passaggio dei taxi e degli autobus. 

Una precauzione necessaria, visto che nel 2005 Sharm el-Sheik è stata vittima di un grave attentato terroristico, ma che molti pensano sia stata presa per evitare proteste e manifestazioni di dissenso contro il regime di Al-Sisi. D’altronde la scelta stessa di ospitare la COP in una località turistica e isolata come Sharm el-Sheikh e non nella Capitale, al Cairo, è un’indicazione abbastanza chiara del tentativo del governo egiziano di tenere la situazione sotto controllo. 

In ogni caso tutto quello che accade all’interno dei confini della COP, solitamente un grande centro congressi, ricade sotto la giurisdizione del suo organizzatore, le Nazioni Unite. La People’s Plenary, quindi, previa approvazione dell’ONU, si è tenuta senza che le autorità locali potessero avanzare particolari opposizioni.

Durante la Plenaria hanno preso la parola i rappresentanti delle varie constituencies: i loro discorsi sono stati accompagnati dai cori, dalle standing ovation e dai fragorosi applausi degli observers¸ossia dei membri della società civile arrivati a Sharm el-Sheikh per assistere ai lavori della COP.

Al termine dell’assemblea, durata circa un’ora e mezza, i due presidenti della Plenaria hanno presentato la Dichiarazione dei popoli per la giustizia climatica, un documento stilato dalla società civile e indirizzato ai negoziatori impegnati nelle trattative, affinché ne tenessero conto durante i lavori della COP.

Dopo la presentazione, i rappresentanti delle constituencies e gli observers sono usciti all’esterno della sala, e in un sit-in all’aperto hanno letto il documento alla stampa. 

La Dichiarazione dei popoli per la giustizia climatica

Ecco alcuni estratti della Dichiarazione tradotti da Agenzia di Stampa Giovanile

Noi, rappresentanti dei movimenti delle popolazioni indigene, delle donne e di genere, dei giovani, dei lavoratori e della giustizia ambientale e climatica di tutto il mondo, a nome di migliaia di organizzazioni e milioni di persone riunite qui alla COP27 a Sharm El Sheikh, affermiamo che:

Il cambiamento climatico minaccia e impatta già su miliardi di vite. Ad essere maggiormente colpite sono quelle di coloro che hanno contribuito meno al cambiamento climatico, in particolare quelle delle donne, delle persone nere, delle popolazioni indigene e delle persone di colore, dei lavoratori, dei contadini e delle popolazioni rurali, dei giovani, delle persone con disabilità e delle comunità locali che combattono in prima linea contro i cambiamenti climatici.

La crisi climatica amplifica le disuguaglianze e le ingiustizie strutturali che sono insite nei nostri sistemi economici e politici e che hanno provocato una crisi del debito vertiginosa, una crisi globale del costo della vita, disuguaglianza e povertà crescenti, una violazione dei limiti del pianeta e la distruzione di Madre Terra.

Nonostante i numerosi e drammatici avvertimenti scientifici, sta per finire il tempo che abbiamo a disposizione per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5°C. 

I paesi del Nord del mondo, tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Unione Europea, hanno la maggiore responsabilità storica per le emissioni. Si sono arricchiti attraverso secoli di colonizzazione e di continuo sfruttamento delle comunità e delle nazioni del Sud del mondo, comprese quelle delle popolazioni indigene, e si sono rifiutati di fare la loro giusta parte per affrontare la crisi e di ripagare il loro debito climatico e i risarcimenti per le perdite e i danni che hanno causato. Invece, ora stanno facendo marcia indietro rispetto ai loro già deboli impegni, espandendo l’estrazione e la produzione di petrolio e gas.

Queste dichiarazioni non sono casuali. 

Parte dell’agenda negoziale della COP27 era dedicata proprio alla questione dei Loss and Damages, ossia delle perdite e dei danni causati dal cambiamento climatico. 

Si può dire che questa edizione della COP, almeno dal punto di vista della finanza climatica, sia riuscita a soddisfare le aspettative della società civile. Sulle questioni riguardanti gli impegni degli Stati e il raggiungimento del target 1.5°C, però, le risposte sono state deludenti. 

Partiamo dal primo aspetto, quello dei Loss and Damages.

Dopo trent’anni di battaglie portate avanti dalla società civile e dal G77, un’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite, formata da 134 paesi in via di sviluppo, le trattative sono giunte a un punto di svolta: le negoziazioni si sono concluse con l’approvazione di un meccanismo destinato ai paesi più vulnerabili per compensarli delle perdite e dei danni causati dal cambiamento climatico. 

L’introduzione di questo fondo rappresenta un momento storico per la lotta al cambiamento climatico, sebbene non siano ancora state definite delle linee guida specifiche per la sua implementazione. 

Chi figura tra i Paesi in via di sviluppo? Chi contribuirà economicamente al fondo? Chi stabilirà se i danni provocati da un fenomeno atmosferico sono riconducibili al cambiamento climatico? Chi controllerà la redistribuzione dei fondi?

Per avere una risposta certa, tutte queste domande dovranno essere affrontate nei prossimi mesi e nelle prossime edizioni della COP.

Andiamo avanti. Come abbiamo visto, la Dichiarazione fa riferimento al target 1.5°C, ossia all’intesa trovata nel 2015 alla COP di Parigi sulla riduzione delle emissioni di gas serra. 

Con gli Accordi di Parigi i Paesi si sono impegnati affinché, nei prossimi decenni, la temperatura globale non salga oltre gli 1.5°C rispetto all’era preindustriale. Una soglia, che se superata, favorirebbe l’insorgere di fenomeni climatici estremi. 

Bene, al termine della COP27, sono pochi gli Stati che hanno aggiornato i propri obiettivi di mitigazione, ossia di riduzione delle emissioni di gas serra, rispetto alla COP26 di Glasgow: dei 194 partecipanti alla Conferenza, solo 29 hanno presentato piani nazionali effettivamente utili e pragmatici.

Stando così le cose, in base agli impegni attuali adottati dalla maggior parte dei Paesi, c’è il 66% di probabilità che il riscaldamento globale raggiunga un incremento tra 2,4°C e 2,6°C entro la fine del secolo. 

Una prospettiva catastrofica che necessità assolutamente di contromisure adeguate. 

Prima di passare alle proposte elencate all’interno della Dichiarazione, è giusto soffermarsi su alcune delle osservazioni avanzate dalla società civile nella parte centrale del documento. Considerazioni da cui non è possibile prescindere se si vuole fare qualcosa di concreto per contrastare i cambiamenti climatici.

Non ci può essere giustizia climatica senza i diritti umani e i diritti delle popolazioni indigene. Chiediamo a tutti i governi di fermare la riduzione dello spazio civico, di rispettare i diritti e la dignità delle popolazioni indigene, dei lavoratori, degli attivisti per il clima e per i diritti umani e dei difensori dell’ambiente.

La crisi climatica ha un impatto sproporzionato sui diritti di milioni di persone, lavoratori e comunità marginalizzate in tutto il mondo, in particolare nel Sud globale e nelle popolazioni indigene di tutti i paesi, a causa del loro rapporto di reciprocità con la terra e della storica discriminazione che hanno subito. Il cambiamento climatico amplifica le disuguaglianze e le ingiustizie esistenti, negando i diritti umani fondamentali, tra cui il diritto alla vita, il diritto alla salute, il diritto a un alloggio sicuro e dignitoso, il diritto al cibo, il diritto ai mezzi di sussistenza e a un lavoro dignitoso, il diritto a un ambiente sano e il diritto alla sovranità culturale.

Come emerge dal testo, i diritti umani sono legati a doppio filo alla questione dei cambiamenti climatici. Oltre a minacciare la nostra stessa esistenza, infatti, rischiano di avere degli effetti estremamente dannosi per il nostro benessere. 

Come riportato dall’IPCC, i maggiori impatti dei cambiamenti climatici sulla salute potrebbero includere un maggior rischio di lesioni, malattie e morte a causa di ondate di calore, incendi e fenomeni climatici estremi; un aumento della  malnutrizione provocata dalla riduzione della produzione alimentare nelle regioni povere; e un aumento dei rischi di malattie trasmesse da cibo e acqua. A questo proposito, l’OMS avverte che tra il 2030 e il 2050 potrebbero essere oltre 250.000 i morti provocati dal cambiamento climatico. 

L’emergenza climatica, quindi,  rischia di danneggiare tutti. I suoi effetti, però, saranno molto più sentiti dalle nuove generazioni e da quelle comunità, gruppi e individui già svantaggiati che non hanno i mezzi per contrastarli.

Come riporta l’ISPI, tra i paesi più vulnerabili troviamo buona parte dei paesi dell’Africa subsahariana, il Sud-est asiatico, l’America centro meridionale e i piccoli stati insulari in via di sviluppo.

Ma se guardiamo i dati sulle emissioni cumulative a partire dalla rivoluzione industriale i paesi appena elencati non ci sono: tra i responsabili figurano principalmente l’Occidente e la Cina. Gli Stati Uniti sono responsabili del 25% delle emissioni, l’UE del 22%, la Cina del 12,7%, la Russia del 6%, e l’India del 3%. Tutto questo a fronte del continente africano, responsabile solamente di un 3% delle emissioni cumulative.

Le proposte della società civile

Bene, abbiamo visto un po’ di contesto. Ora è il momento di passare alle proposte. Questo è quello che chiede la società civile riunitasi a Sharm el-Sheikh:

Assicurare e abilitare transizioni giuste che garantiscano a tutti il ​diritto di vivere con dignità e in equilibrio con il nostro pianeta. La transizione deve essere democratica e deve seguire i principi della care economy. Deve essere inclusiva e portare alla giustizia, a una giusta transizione per i lavoratori, per le comunità colpite e per tutti i popoli. Deve includere poi una giusta transizione verso sistemi di energia rinnovabili, e prevedere un’eliminazione, equa, giusta e graduale dei combustibili fossili, dando poi priorità ai servizi pubblici universali, compresa la sanità e l’istruzione; la  sovranità alimentare e l’agroecologia; la protezione sociale, i diritti dei lavoratori, salari dignitosi, il ripristino della natura e il rispetto dei diritti della Madre Terra.

I paesi ricchi devono ripagare il loro debito climatico riducendo a zero le emissioni reali entro il 2030, come raccomandato dall’IPCC. Devono prevedere dei finanziamenti per affrontare gli impatti climatici, favorire l’adattamento e ripagare le perdite e i danni. Questo fa parte di una più ampia richiesta di risarcimenti per l’estrazione di ricchezze e lo sfruttamento di persone e risorse che hanno volutamente impoverito il sud del mondo.[Gli Stati] Devono fornire finanziamenti basati sui bisogni e le priorità richieste. I finanziamenti devono essere pubblici, basati su sovvenzioni e raggiungere le popolazioni e le comunità più colpite. I finanziamenti possono essere reperiti attraverso l’introduzione di tasse sul patrimonio sull’1% più ricco della popolazione e di tasse sui profitti dei grandi inquinatori. Inoltre, chiediamo l’immediata cancellazione del debito insostenibile e illegittimo.

Le nazioni devono impegnarsi per guidare, entro il 2030, un’eliminazione rapida, giusta ed equa della produzione di combustibili fossili che permetta di rimanere ben al di sotto di 1,5°C.

Dobbiamo passare a sistemi di energia rinnovabile e di efficienza energetica giusti ed equi, di proprietà delle persone e decentralizzati per prevenire danni catastrofici a tutti i popoli. 

Non possiamo permettere all’industria dei combustibili fossili di continuare a scrivere le regole e finanziare i negoziati sul clima. Dobbiamo smettere di essere ostaggio delle multinazionali e ristrutturare il sistema in modo che sia al servizio delle persone e non dell’avidità di chi inquina. 

I governi devono respingere categoricamente le false soluzioni e i piani “net zero” che non sono praticabili e che nascondono politiche e azioni che perpetuano l’inquinamento… Ciò include la compensazione, i mercati del carbonio, le tecnologie di cattura del carbonio, le soluzioni basate sulla natura, la geoingegneria, l’agricoltura intelligente per il clima e altri che sono inefficaci, ingiusti, rischiosi e distruttivi. I paesi ricchi, che sono i maggiori responsabili della crisi climatica, non possono impegnarsi in nuove forme di colonialismo del carbonio e devono decarbonizzarsi completamente entro il 2030, in linea con quanto indicano gli scienziati dell’IPCC. (…)

Certo, vista così la Dichiarazione dei popoli sulla giustizia climatica sembra la soluzione a tutti i mali del pianeta, eppure, è inutile negarlo, si percepisce una spiccatissima dose di idealismo. 

Pensare che dall’oggi al domani gli Stati possano prendere in mano la dichiarazione e attuare magicamente tutto quello che c’è scritto, purtroppo, è follia. 

Ci sono di mezzo troppi interessi. Basti pensare a un paio di cose viste in questa COP. 

Sponsor della COP27? Coca-Cola, che negli ultimi tre anni ha aumentato del 3.5% la propria produzione di plastica vergine.

Sponsor del padiglione nigeriano alla COP27? Total, Agip, Shell, multinazionali operanti nel settore dei combustibili fossili.

Terza delegazione più numerosa alla COP? Quella dei rappresentanti del settore dei combustibili fossili, con 636 delegati. 

Nah, troppo idealismo. 

Eppure… è un male? Ci troviamo di fronte a una sfida storica, immane, da cui dipende la nostra sopravvivenza e per cui servono soluzioni drastiche, coraggiose, immediate. Si tratta di idealismo o delle uniche soluzioni di cui disponiamo per non rimanerci secchi? 

Probabilmente saremo costretti a sbatterci la testa contro questo cambiamento climatico, prima che qualcuno decida di fare qualcosa. Finché chi ha il potere di cambiare le cose non avrà un piede nella fossa, resteremo a guardarci negli occhi, titillandoci a vicenda parlando di macchine elettriche e gas algerino. 

Mentre in Pakistan si muore per le inondazioni e la Marmolada crolla su sé stessa. 

La Dichiarazione sarà idealista? Sicuro, ma almeno indica una direzione. Sta poi alla politica, guidata dagli esperti, capire come raggiungere l’obiettivo. 

Noi possiamo solo far sentire la nostra voce. 

Ecco, voce. Facciamo in modo che la nostra si senta forte e chiara. 

Marzio Fait

© Riproduzione riservata

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