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Mobilità globale e disuguaglianza: cambiare il linguaggio per reimmaginare il sistema

La portata epocale della pandemia di Covid-19 non è limitata ai pesanti costi sanitari e sociali, ma riguarda anche cambiamenti che, seppure di minore impatto, hanno modificato il nostro stile di vita. Tra questi ultimi, uno dei più notevoli è la restrizione della mobilità. Viaggiare è ancora possibile, ma è anche stato reso decisamente piú complesso dall’introduzione di protocolli per la sicurezza sanitaria, come effettuare tamponi prima e dopo il viaggio e osservare eventuali periodi di quarantena. Talvolta, i costi in termini di tempo e denaro legati a tali procedure, se non addirittura la cancellazione del volo, possono impedire del tutto la partenza. Per le generazioni più giovani, nate e cresciute nell’Europa di Schengen, l’idea di non poter semplicemente acquistare un biglietto online e presentarsi in aeroporto per l’imbarco, senza ulteriori preparativi e con la ragionevole certezza che il volo decollerà, rappresenta una novità destabilizzante.

Tuttavia, il disagio che questa nuova normalità provoca a noi giovani viaggiatori europei è indicativo del nostro immenso privilegio in termini di mobilità internazionale. Quando noi, cittadini di ricche nazioni occidentali, ci spostiamo all’estero temporaneamente o in modo permanente per studiare, lavorare o semplicemente fare esperienze nuove, ci spetta l’etichetta di expat, un raffinato neologismo inglese scevro dalla connotazione negativa che il termine “immigrato” ha assunto nell’immaginario comune. Di fatto, stiamo attualmente sperimentando una minima frazione di ciò che la maggioranza della popolazione globale deve affrontare per spostarsi. La libertà, o perlomeno la facilità, di movimento è infatti prerogativa di chi detiene un passaporto “forte”, cioè che assicura procedure di accesso semplificate, ossia senza visto o con la possibilità di richiedere il visto all’arrivo, ad un elevato numero di paesi. Prevedibilmente, la forza di un passaporto appare correlata con la posizione che il paese di emissione occupa nello scacchiere geopolitico. I dati forniti dal Passport Index, una classifica annuale dei passaporti emessi da 199 autorità territoriali in base al loro potere, indicano che la pandemia ha sortito un impatto trascurabile sulla mobilità internazionale. Dal 2015 ad oggi, le prime dieci posizioni della classifica sono rimaste appannaggio dei paesi occidentali piú ricchi e di alcuni paesi ad alto reddito storicamente legati ad essi, quali gli Emirati Arabi Uniti, Singapore, la Corea del Sud e il Giappone. Le posizioni piú basse spettano invece ai paesi a basso reddito e in via di sviluppo, specialmente se politicamente instabili. Nonostante gli abbassamenti piú consistenti negli indicatori di mobilità nell’ultimo anno abbiano interessato i passaporti considerati forti, l’enorme divario di partenza con il resto del mondo ha protetto lo status quo da cambiamenti sostanziali.

Il Passport Index traccia un quadro soltanto parziale della disuguaglianza globale di mobilità, poiché i suoi punteggi si basano sulla facoltà di soggiornare in un paese senza visto, il che normalmente è permesso per periodi di tempo limitati. L’aspetto più spinoso della questione, invece, riguarda probabilmente l’ottenimento dei visti di residenza temporanea o permanente. Vivendo per la maggior parte in paesi ad alto reddito, i detentori di passaporti forti tendono anche a godere di risorse finanziarie sufficienti per coprire i costi legati alle domande di visto, che invece sono spesso insostenibili per i cittadini dei paesi meno ricchi. L’intero sistema che regola la mobilità internazionale poggia dunque su un meccanismo paradossale e discriminatorio, per cui coloro che hanno maggior bisogno di un visto per stabilirsi all’estero hanno anche minori opportunità di ottenerlo. Questo, secondo molti attivisti per i diritti dei migranti, è uno dei motivi principali per cui un crescente numero di persone intenzionate ad emigrare decide di farlo attraverso canali irregolari, esponendosi a rischi enormi. Il progetto Missing Migrants, a cura dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha registrato un totale di oltre 45.000 migranti morti o dispersi in viaggio dal 2014 ad oggi, quasi la metà dei quali risultano scomparsi nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Sono inoltre largamente documentati gli abusi dei diritti umani perpetrati ai danni dei migranti sia nei paesi di transito che in quelli di arrivo.

Se da una parte i flussi migratori dal sud al nord del mondo sono cresciuti, alimentati anche da instabilità politica e disuguaglianze economiche di cui il secondo è storicamente responsabile, i paesi d’arrivo hanno reagito d’altra parte promulgando leggi anti-migrazione e fortificando i propri confini attraverso tecnologie di sorveglianza e azioni di respingimento. Cosí, ad esempio, operazioni militari di ricerca e salvataggio come Mare Nostrum, condotta su iniziativa del Governo italiano al largo delle coste mediterranee nel 2014, sono state sostituite dalle attività di pattugliamento e respingimento svolte da Frontex, l’Agenzia europea che funge da polizia di frontiera dell’Unione. Secondo l’antropologa statunitense Catherine Besteman, il sistema che attualmente regola la mobilità internazionale è un “apartheid militarizzato globale” (militarized global apartheid). Quest’ultimo, come l’istituzione storica dell’apartheid in Sudafrica, presuppone una separazione tra esseri umani sulla base di un criterio arbitrario, nella fattispecie il luogo di nascita, perpetrata mediante strutture materiali e immateriali che mantengono il privilegio di un gruppo a scapito dell’altro. La lettura di Besteman evidenzia un aspetto cruciale della questione, ossia che la militarizzazione delle politiche migratorie e la narrazione della migrazione come minaccia esistenziale per i cittadini siano due elementi inscindibili dell’apartheid globale, che si giustificano e si rafforzano a vicenda. L’Europa, nonostante i suoi valori fondanti di libertà e tolleranza, ha adottato una retorica di stampo bellico sull’argomento almeno dal 2015, quando il fenomeno noto come crisi europea dei migranti è esploso nel dibattito pubblico, polarizzandolo. Attualmente, al netto delle limitazioni dovute alla pandemia, un sistema interno di totale libertà di movimento coesiste con un altro, autoritario e repressivo, all’esterno.

L’attuale sistema di mobilità globale è profondamente ingiusto e disumanizzante. Presa coscienza di ciò, come si può combattere un sistema così radicato e potente? La chiave d’accesso al problema sta probabilmente nel linguaggio relativo alla migrazione. Esso gioca, come si è detto, un ruolo fondamentale non solo nel legittimare la macchina istituzionale e militarizzata dell’apartheid globale, ma anche nel rendere impensabile qualsiasi alternativa. Laddove la retorica sovranista abbia attecchito e la politica abbia normalizzato l’uso di strumenti affini al mantenimento di un sistema che limita pesantemente la libertà di movimento della maggior parte della popolazione, non resta spazio per soluzioni diverse supportate da un linguaggio di apertura. Eppure, da sempre il futuro si costruisce reimmaginando la realtà sulla base di nuovi ideali. Sforzarsi di sviluppare nuove narrazioni, interrogare il proprio privilegio e le disuguaglianze che esso nasconde, mettere in discussione la necessità di queste ultime sono i primi, fondamentali passi per un impegno concreto verso il cambiamento.

Francesca Di Fazio

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