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Interruzione volontaria di gravidanza: tra diritto e delitto

Nell’ultimo anno, in Italia e nel mondo, a causa dei tanti cambiamenti politici e giuridici che hanno coinvolto una pluralità di ordinamenti, abbiamo tanto sentito parlare di interruzione volontaria di gravidanza, di nuove conquiste in materia di tutela del diritto all’aborto e di azioni e fatti concreti che invece minacciano gravemente l’accesso a pratiche sicure.

Nel nostro Paese a regolare l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) sono la legge n.194 del 1978, promulgata nell’ambito delle politiche di tutela della salute delle donne, e altri atti che negli anni hanno parallelamente arricchito la disciplina.

La 194 prevede che una persona possa interrompere volontariamente la propria gravidanza entro i primi 90 giorni di gestazione, superabili solo se la vita o lo stato di salute psicofisico della richiedente sono posti in pericolo dalla gravidanza. In questo caso si parlerà di aborto terapeutico.

Oltre a poter interrompere una gravidanza attraverso il metodo chirurgico, è possibile scegliere di ricorrere all’aborto farmacologico che, oggi, grazie alla circolare di aggiornamento delle linee di indirizzo ministeriali “sull’IVG con mifepristone e prostaglandine” emanata nell’agosto del 2020 con il parere favorevole del Consiglio Superiore di Sanità e seguita dalla Determina n. 865 dell’Agenzia Italiana del Farmaco, è possibile effettuare in day hospital, consultorio o ambulatorio se ancora non sono trascorse le prime nove settimane di gravidanza. 

La procedura medica, a differenza dell’intervento chirurgico, non necessita di anestesia locale o generale e prevede la somministrazione di due principi differenti a distanza di 48 ore l’uno dall’altro: il mifepristone, meglio conosciuto con il nome di RU486, che interrompe lo sviluppo della gravidanza, e una prostaglandina, che determina l’espulsione dei tessuti embrionali.

La legge, emanata in un contesto di lotta per il riconoscimento di uno dei più grandi diritti che garantiscono a tutte le persone con utero di autodeterminarsi, presenta numerosi aspetti grazie ai quali negli anni si è riusciti ad ottenere una notevole riduzione non solo del numero di aborti clandestini ma anche di quelli volontari, come la gratuità dell’IVG, il libero accesso a persone straniere anche se sprovviste di permesso di soggiorno e a gestanti minorenni, che se ritengono inopportuno coinvolgere i genitori possono ottenere un’autorizzazione del giudice tutelare. 

Ma se è doveroso riconoscere ed evidenziare gli elementi positivi del testo normativo, è altrettanto necessario analizzarlo con occhio critico, rilevando che il suo contenuto, da un lato, tende più a tutelare la maternità in senso assoluto, evitando espressamente che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite e che, dall’altro, è pieno di zone grigie che aprono a pericolosi attacchi al riconoscimento del diritto stesso.

Uno dei punti più dolenti riguarda la possibilità che la legge dà al personale sanitario e ausiliario di obiettare con riferimento alle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’IVG.

Questa impostazione ha favorito, in alcune Regioni, la creazione di ambienti in cui oggi la soglia dei medici obiettori supera l’80%. E nonostante sia specificato che, pur consentendo ai singoli di obiettare, sia doveroso per la struttura sanitaria garantire la possibilità di abortire anche attraverso la mobilità del personale, in numerose Province italiane è quasi impossibile accedere all’IVG proprio a causa della forte presenza di obiettori su tutto il territorio nazionale.

Inoltre la legge, attribuendo alle Regioni il compito di promuovere le tecniche “più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna,” permette a quelle che non recepiscono le nuove linee di indirizzo sull’aborto farmacologico, come accade ad esempio nelle Marche, di impedire alla persona gestante di scegliere a quale metodo ricorrere per interrompere la gravidanza.

E se in alcuni territori italiani vengono sfruttate le zone d’ombra della legge per incidere sulla scelta del metodo, in altri, come in Piemonte, sono sempre più diffusi bandi volti a promuovere la presenza di associazioni no-choice all’interno dei consultori. 

Per quanto possano apparire lecite attività che affonderebbero le radici nel secondo articolo della legge, volto a favorire in ottica solidaristica il coinvolgimento, attraverso convenzioni o regolamenti, di formazioni sociali e  associazioni di volontariato anche al fine di “aiutare la maternità difficile dopo la nascita,” in realtà le pratiche spesso si concretizzano in azioni a dir poco scabrose.

Ricordiamo, a titolo esemplificativo, il caso del cimitero dei feti che, grazie alla lunga lotta di numerose persone capitanate da Francesca Tolino e i suoi legali, è al vaglio del Tribunale di Roma e, nell’attesa di una risposta da parte della Regione Lazio, è stato affrontato dal Comune capitolino che ha modificato il Regolamento di polizia cimiteriale.

Tra gli altri aspetti più discussi poi vi sono il dovere per il personale, anche non medico, dei consultori familiari di effettuare un esame dello stato della gestante e di contribuire “a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza,” e l’imposizione, salvo motivata urgenza, a farla soprassedere per un periodo di sette giorni prima di accedere definitivamente all’intervento. 

Le criticità emergono riguardo all’ormai anacronistico approccio che la legge assume rispetto al concetto di maternità volontaria e ai compiti del personale sanitario, che oggi dovrebbe limitarsi ad investigare le ragioni della scelta più a fini di monitoraggio e statistici. 

Infatti, a prescindere dal fatto che a determinare la decisione, che ricordiamo essere presa nella maggior parte dei casi da persone di età compresa tra i 30 e i 34 anni, siano questioni esterne che necessiterebbero per essere superate di lungimiranti politiche del welfare ben diverse dalla semplice concessione di bonus, o personalissime motivazioni, sarebbe del tutto insensata e inutile un’intrusione da parte degli operatori che, nonostante per legge debbano comunque assecondare la gestante, spesso, come ha raccontato L’Espresso con l’inchiesta In nome di tutte, si ergono a violenti giudici di ultima istanza, irrispettosi della scelta bioetica dell’unico soggetto giuridico autorizzato a disporre del proprio corpo.

Oggi pare ingenuo auspicare che le forze politiche che compongono la maggioranza e il Governo del nostro Paese possano ascoltare richieste e appelli finalizzati all’integrazione della normativa laddove questa sia carente, appelli come quello lanciato da Libera di Abortire

Basti pensare al recente deposito del testo del disegno di legge volto a modificare l’articolo 1 del codice civile, per il quale “la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita,” in modo tale da anticipare il riconoscimento della stessa al momento del concepimento. 

Emendare la disposizione annullerebbe una qualsiasi possibilità di IVG legale visto che, anche nel caso di un aborto terapeutico, vi sarebbero in gioco due vite meritevoli di egual tutela. L’IVG si trasformerebbe così in un atto delittuoso, da perseguire alla stregua di un omicidio volontario.

Ma criminalizzare l’aborto non impedirà, come già dimostrato da qualsiasi studio nel merito, alle persone dotate di utero di accedere a pratiche che consentano loro di interrompere una gravidanza. 

Allo stesso modo, i processi di autodeterminazione dei singoli non si fermeranno di fronte all’insistente volontà di definire l’aborto come qualcosa di contrario alla genitorialità, demonico, affrontato per forza con leggerezza o necessariamente doloroso e traumatizzante, cosa che sarebbe solo, dicendolo con parole della filosofa francese Simone de Beauvoir, “nella misura in cui [le donne] fossero condizionate a fare della maternità un vero e proprio sacerdozio.”

Cercare invece di studiare la diversa casistica, riconoscendo a monte il diritto di ogni persona ad autodeterminarsi, consentirebbe di analizzare ogni singolo caso di aborto dando spazio e valore ad una pluralità di vissuti, di fondare serie indagini riguardo a quali siano le reali problematiche su cui poter aprire un dibattito e di spostare l’attenzione della società e, soprattutto, di chi amministra “la Cosa pubblica” su temi che non possiamo più evitare di affrontare.

Assia Zoller

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