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L’insostenibile leggerezza della neve ad ottobre

Quest’anno l’industria dello sci alpino ha dovuto fare i conti con l’impossibilità di sostenere le prime gare della stagione, che erano in programma per fine ottobre e inizio novembre. Gli alti paesaggi che avrebbero dovuto ospitare le competizioni erano ben lontani dall’essere un contesto sciabile così come ce lo immagineremmo, bianco e innevato. 

Tuttavia non si è ancora disposti ad ammettere l’insostenibilità dell’industria dello sci alpino, anche di fronte alle evidenze che i cambiamenti climatici stanno facendo emergere. Garantire le condizioni di innevamento è prioritario, a prescindere dalla ristrettezza delle risorse a disposizione. Senza la neve la stagione sciistica non può svolgersi e, senza sci, non si fa inverno.

La cancellazione della competizione di slalom gigante femminile è stata annunciata dalla FISI, la Federazione Italiana Sport Invernali, il 22 ottobre, poco prima delle 8.00: avrebbe dovuto tenersi il giorno stesso a Sölden. Poche ore dopo vengono annullate anche le gare di discesa maschile in programma per il 29 e 30 ottobre. Stesso destino hanno avuto le discese del primo weekend di novembre sul Cervino e quelle del secondo fine settimana a Lech/Zuers. Gli eventi cancellati della Coppa del Mondo hanno infine raggiunto quota sette. La causa è solo una. Le condizioni non garantiscono la massima sicurezza di chi gareggia. Motivazioni tecniche, dunque, e non di natura ambientale.

Se questi siano i valori della fondazione, se lo chiede lo sciatore francese Johan Carey, argento alle Olimpiadi di Pechino 2022, che mette in dubbio la sostenibilità ambientale di un inizio di stagione così evidentemente in anticipo rispetto al naturale corso delle stagioni: “Basta osservare le condizioni dei ghiacciai, che peggiorano ogni anno, e questa discesa richiede enormi risorse, dall’utilizzo degli elicotteri ai crepacci da tappare.” A lasciare perplesso Carey sono anche la scarsa sensibilità rispetto al messaggio culturale suggerito da queste scelte e la poca preoccupazione per il ritorno di immagine che danno allo sport.

Quella dello sport è un’industria a tutti gli effetti e, come tale, segue le regole del mercato. Per il successo di un evento sciistico e del relativo racconto sui media, sono indispensabili condizioni di neve sufficienti. Le questioni economiche rendono fondamentale che queste ultime vengano garantite e premono sulle attuali norme di protezione dell’ambiente, ripetutamente aggiustate per consentire la costruzione degli impianti. Nonostante le leggi per la tutela paesaggistica vengano scritte per ribadire la priorità della salvaguardia dell’ecosistema, come limite entro cui collocare l’agire umano in montagna, non sono rare le deroghe per permettere di aggirarne i punti più critici in merito alle infrastrutture necessarie per lo sviluppo delle attività più redditizie per il territorio.

In Provincia di Trento si respira un senso di cieca adesione per le scelte prese in materia di aggiornamento tecnologico per permettere agli sport invernali, in questo caso specifico allo sci alpino, di perpetuarsi. Non tutti la pensano allo stesso modo però. Tra chi si oppone apertamente a tale sfruttamento delle aree naturali c’è The Outdoor Manifesto, un collettivo di attivisti e attiviste appassionati alla pratica di sport e esperienze all’aperto e impegnati per la difesa degli ambienti naturali. 

Il progetto mette nero su bianco una filosofia dell’outdoor che mette al primo posto la cura verso i luoghi che si frequentano.  L’esperienza dello sport è intesa come un’occasione per entrare in relazione con il territorio, guidati prima di tutto dalla sensibilità ambientale. Nel documento da loro redatto per stimolare un cambiamento culturale si legge: “Ci opponiamo a una visione antropocentrica del mondo che riduce la natura a mera risorsa economica.” E ancora: “Ci opponiamo all’anteposizione di fini sportivi o turistici a quelli di tutela ambientale.” 

Le manifestazioni sportive, per l’appunto, sono grandi catalizzatori di attenzione e generano un enorme effetto di marketing territoriale, favorendo un aumento del numero di visitatori. Per riuscire in questo intento promozionale, è necessario che gli eventi appaiano perfetti, così come le località turistiche che li ospitano e che investono ingenti quantità di denaro.

A tal proposito, in Trentino, la capillarità del sistema di innevamento garantisce la copertura dell’86% delle piste. Dato l’andamento climatico ora è pressoché imprescindibile la presenza di impianti atti alla produzione di neve. E’ però altrettanto importante iniziare a problematizzare un’attività così energivora e così dispendiosa a livello di risorse idriche; dopotutto il 2022 è stato l’anno più caldo dal 1800, l’anno in cui l’Italia ha scoperto cosa significa la parola siccità. Senza considerare la crisi che ha fatto decollare i prezzi dell’energia, portando notevoli rincari sulle bollette di casa ma soprattutto delle attività.

La Panarotta 2002, il comprensorio sciistico della Valsugana, infatti, ha preso la sua decisione: quest’anno non aprirà. “Tutto può accadere ma preparare le piste richiede tempo e risorse. Ci troviamo in un contesto in cui le famiglie soffrono e sono in difficoltà, sciare non è una necessità e preferiamo prenderci una stagione di pausa, contenere i costi e portare avanti gli investimenti già attivi, come il progetto del bacino. Speriamo il prossimo anno possa andare meglio.” Matteo Anderle, presidente della Panarotta s.r.l., affronta la realtà e punta tutto sulle attività turistiche finora considerate minori, come ciaspole e slitte, pur non nascondendo il rammarico e l’amarezza per la scelta presa. 

La località sciistica infatti era destinata a lavorare in perdita e l’unico modo per salvarla erano i finanziamenti provinciali, come frequentemente accade per lo sci. Per ogni ettaro di pista da innevare “servono tra i 2.000 e i 7.000 kilowattora. Questi numeri si traducono in spese. (…) L’associazione nazionale dei gestori di impianti sciistici ha stimato un investimento di 100 milioni di euro per innevare tutte le piste italiane.” Per i comprensori trentini, – i costi-  sforano i 25 milioni di euro.

Quest’anno i conti non si faranno solo rispetto ai costi, bensì anche e soprattutto con la ristrettezza idrica che, a seguito di una stagione estiva estremamente calda e asciutta, caratterizza anche lo stato dei bacini artificiali. “A parte Campiglio che ha la fortuna di avere una riserva gigantesca – spiega Valeria Ghezzi, presidente dell’Anef, associazione nazionale esercenti funiviari – nelle altre località i bacini si svuotano e si riempiono anche due o tre volte in un inverno ma con determinate condizioni climatiche questo diventa difficile.”

Il consumo idrico per tale scopo non è infatti irrisorio: “Con un metro cubo di acqua è possibile produrre mediamente 2,5 metri cubi di neve. Per innevare un ettaro di pista – in Trentino sono 1600 gli ettari adibiti a questo scopo – con uno strato di fondo alto 30 centimetri servono circa mille metri cubi di acqua, quasi metà dell’acqua contenuta in una piscina olimpionica.”

Di fronte a questo squilibrio tra carenza di acqua e ampio uso dell’innevamento programmato, si può ancora dire che la natura fa il suo corso? Quel che è certo è che i cannoni sono pronti a svolgere il loro lavoro e imbiancare, solo in Trentino, 800 chilometri di piste entro Natale, preparando il set per una settimana bianca perfetta, che senza sci ai piedi non è degna di essere considerata tale. 

Sono numerose le contraddizioni di una proposta turistica ancora fortemente ancorata allo sci alpino e che non riesce a ripensarsi neanche di fronte al costante aumento delle temperature. Lo zero termico continua a salire di quota, così come le prime spolverate di neve naturale. Queste condizioni presuppongono un costante affinamento tecnologico del sistema di innevamento artificiale, per renderlo performante e in grado di produrre neve fino a 15 gradi sopra lo zero.

Ulteriore fenomeno sfidante a tal proposito è l’inversione termica, motivo per cui a fondo pista è più freddo che in vetta. Per la produzione di neve, questo rappresenta un problema. Essa dunque viene necessariamente sparata e accumulata a valle, per poi essere distribuita lungo il pendio con dei mezzi cingolati, o trasportata sulla cima direttamente in elicottero: come avvenuto nel comune di Folgaria, a Fondo Grande, nel 2011.

Costi quel che costi, la neve non deve mancare. Si apre dunque il cantiere del carosello sciistico. Un impianto di innevamento artificiale comprende numerosi componenti installati a monte e a valle: stazioni di pompaggio e condotte, stazioni compressori, pozzetti, valvole, il sistema di controllo, e infine i generatori di neve, ovvero “i cannoni”, la parte più riconoscibile, un po’ come la macchina del fumo in teatro. Le riserve di acqua si ricavano creando laghi artificiali in superficie e scavando serbatoi ipogei. Per la struttura sotterranea è necessario movimentare un’enorme quantità di terra e il suolo che la ricopre, al termine dei lavori, è caratterizzato da una vegetazione molto rada. Ci vogliono anni perché essa si rigeneri e nel frattempo il rischio di erosione è considerevole. 

I progetti per la realizzazione delle piste, inoltre, spesso interessano zone boschive; dunque, quanto più sono ampi i tracciati – e maggiore è il numero di persone che possono ospitare contemporaneamente -, tanta più è la superficie alberata che verrà abbattuta.

Laddove invece le piste vengono realizzate su aree adibite a pascolo, una dannosa conseguenza è provocata dall’acqua ionizzata utilizzata per la neve artificiale, che agendo sulle piante come un fertilizzante, trasforma questi terreni ricchi di biodiversità in prati monocolturali, ovvero caratterizzati dalla presenza di un’unica specie.

L’inverno arriverà puntuale il 21 dicembre 2022, è già scritto sui calendari. Questo non può dirsi con la stessa certezza per l’immagine invernale che abbiamo in mente. La macchina del turismo è già in moto e la Provincia Autonoma di Trento difende la cartolina del paesaggio innevato con ogni suo mezzo a disposizione, invitando turisti da ogni dove a raggiungere le “bianche zime” per godere del candore della neve e dei fiocchi leggeri. Dati alla mano, la questione inizia ad avere un certo peso specifico.

È sempre più urgente una cultura di montagna e una profonda comprensione della fragilità di questi ambienti. Ciò di cui c’è estremo bisogno è un’educazione che restituisca il senso di connessione con la natura, oltre ad una narrazione sincera, in grado di far emergere la consequenzialità delle azioni antropiche per la colonizzazione delle cime con la perdita di biodiversità, il dissesto idrogeologico, la salubrità dell’aria e tutti gli effetti di squilibrio dell’ecosistema.

Realtà come The Outdoor Manifesto, come già detto, si impegnano a tal proposito, denunciando la necessità di un nuovo approccio alla montagna. Le persone che scrivono – e sottoscrivono – il manifesto sono mosse da quell’autentica voglia di vivere la montagna in modo avvincente ma senza per questo sentendo il bisogno di conquistarla. Sono voci determinate, che invitano ad unirsi al coro e creare una massa critica (opposta alla massa di turisti) disposta ad attivarsi per la difesa degli spazi naturali. 

Il consiglio resta quello di leggere le loro parole, farle circolare, confrontarsi e costruire assieme un nuovo pensiero. 

Il documento è consultabile e sottoscrivibile al link

Valeria Simonini

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