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Due diligence: primi passi per una produzione più sostenibile

Nove anni fa, 1.134 persone morirono nel crollo della fabbrica tessile Rana Plaza, a Dhaka, la capitale del Bangladesh. All’interno dell’edificio si producevano tessuti principalmente per aziende europee e statunitensi come Benetton, Primark e Mango. Aziende i cui capi di abbigliamento sono, almeno una volta, finiti negli armadi di ciascuno di noi. 

Quello del Rana Plaza fu uno dei peggiori disastri industriali della storia moderna. È diventato il simbolo della lotta contro le imprese che realizzano i propri guadagni sulla pelle delle persone e ha attirato l’attenzione sullo sfruttamento della manodopera di paesi terzi da parte delle multinazionali dell’abbigliamento. 

Come i capi di fast fashion sopra citati, anche l’olio di palma è un prodotto che porta con sé diversi impatti negativi sull’ambiente e i lavoratori coinvolti. Secondo il WWF, ogni ora vengono cancellati circa 300 campi di calcio di foresta per far posto alle piantagioni di olio di palma, più di 2 milioni di ettari all’anno. 

L’edizione 2021 del report di valutazione del Palm Oil Buyers Scorecard rileva come le aziende più influenti al mondo non riescano ancora a intraprendere azioni realmente trasformative per contrastare i danni della produzione insostenibile di olio di palma sugli habitat naturali né sulle persone che da essi dipendono.

Vi starete chiedendo cosa hanno in comune questi eventi. La risposta è semplice: una problematica e la sua soluzione. Le imprese coinvolte negli esempi citati riportano violazioni dei diritti umani o danni ambientali lungo le loro catene di produzione e tutte (o almeno parte di esse) saranno regolamentate da una nuova direttiva europea sulla cosiddetta “due diligence di sostenibilità aziendale”. 

Con il termine due diligence si intende un processo con cui le imprese possono identificare, prevenire, mitigare e rendere conto in modo efficiente degli impatti negativi, a livello sociale ed ambientale, delle loro attività o di quelle delle loro filiali, subappaltatori e fornitori. 

Finora le aziende hanno avuto l’opportunità di autoregolarsi e di prevenire impatti sociali e ambientali negativi attraverso misure volontarie, fallendo. Quando il dovere di garantire catene di produzione che rispettino diritti ambientali e dei lavoratori sono ridotti ad una pura questione di scelte aziendali è facile che sia ignorato o aggirato.

Per comprendere a fondo la portata della situazione bisogna tenere a mente che le grandi imprese che portano vestiti e prodotti di ogni genere nelle nostre case operano oggigiorno oltre i confini nazionali. Spesso esternalizzano e subappaltano parti della loro produzione – come la produzione di vestiti, la raccolta di chicchi di caffè o l’estrazione di minerali – in Paesi con standard ambientali e di diritti umani più permissivi. Si capisce così come sia piuttosto facile scaricare la responsabilità su altri attori della catena di produzione, riuscendo ad agire impunemente.

Ma il cambiamento potrebbe arrivare grazie a questa nuova direttiva che stabilisce alcuni criteri che le aziende devono osservare per garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori e degli standard ambientali minimi.

Il 23 febbraio 2022, la Commissione Europea ha pubblicato la sua proposta sulla Corporate Sustainability Due Diligence, che mira a “promuovere il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente da parte delle imprese nelle loro operazioni e lungo le loro catene del valore”. 

Stando al testo di legge proposto, diventerebbe obbligatorio per tutte le aziende che intendono vendere beni o servizi nel mercato interno europeo (comprese quelle non appartenenti all’UE) fornire informazioni che colleghino tutti gli attori all’interno della catena del valore di un singolo prodotto, dal luogo di produzione ai rivenditori, così da identificare e contrastare gli impatti negativi della loro produzione sui diritti dei lavoratori, sui diritti umani e sull’ambiente.

In Europa, la necessità di introdurre leggi sulla responsabilità delle imprese è oggi più forte che mai. Alcuni Stati membri dell’UE hanno già preso delle iniziative per promuovere catene di approvvigionamento responsabili (come il Regno Unito con il Modern Slavery Act e la Germania con il Partenariato tedesco per il Tessile Sostenibile), ma una regolamentazione comune rappresenta una potenziale rivoluzione in materia. 

Se si pensa che solo l’abbigliamento e le calzature occupano quasi il 9% dell’impronta globale di gas serra del mondo (più di Francia, Germania e Regno Unito messi insieme), il potenziale perché queste nuove regole portino dei cambiamenti significativi c’è.

La strada è sicuramente ancora molto lunga, ma la direttiva sulla due diligence, seppur imperfetta, può aiutare a promuovere una cultura d’impresa più responsabile e può essere un primo passo verso un modello di business che antepone, finalmente, le persone e il pianeta ai profitti economici.

Manuela Lucianer

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