La libreria di passaggio

Le cose crollano

Per la maggior parte del tempo la libreria di passaggio si concentra su pubblicazioni contemporanee o classici di nicchia che vorremmo far scoprire ad un pubblico più vasto. Questa volta però il romanzo di cui vorremmo parlarvi è un vero classico della letteratura, uno di quelli famosi, inseriti nelle antologie scolastiche; tuttavia siamo quasi certe che voi non ne abbiate mai sentito parlare. Il motivo è triste ma banale: l’autore del testo in questione è africano. 

Chinua Achebe è considerato, e a ragione, il padre della letteratura africana contemporanea. Sebbene avesse scelto di scrivere in inglese per poter raggiungere un pubblico più ampio – e probabilmente a causa della sua formazione prettamente britannica – è stato uno dei primi scrittori a raccontare l’Africa, in questo caso la Nigeria, da un punto di vista completamente autoctono. Il suo romanzo più famoso è probabilmente Le cose crollano, precedentemente pubblicato in Italia con il titolo Il crollo e di recente riportato sugli scaffali delle librerie in una nuova traduzione da La Nave di Teseo. Scritto nel 1958, è un libro freschissimo, che grazie a una prosa agile e moderna nasconde alla perfezione la propria età. Primo capitolo di una trilogia spesso denominata “la trilogia africana” (i due titoli che seguono sono Non più tranquilli e La freccia di Dio, anche se negli anni sono stati tradotti in italiano coi nomi più disparati) è in verità un romanzo perfettamente autoconclusivo.

Spesso la letteratura africana è vittima di enormi pregiudizi. Non ci riferiamo soltanto a quelli razziali, che ne hanno impedito o limitato la diffusione per anni, ma anche un certo numero di altre, più banali supposizioni che ancora censurano nella mente dei potenziali lettori il desiderio di approfondirne la conoscenza. C’è chi crede che tutte le storie africane siano tristi e deprimenti, piene di violenza e tragedie, e quindi le evita; c’è chi invece pensa di non saperne abbastanza né della storia né della cultura e delle tradizioni africane, e dà per scontato quindi di non poter godere appieno della lettura. Persino noi, che ne avevamo sentito parlare per anni con toni entusiastici, non osavamo approcciarlo, un po’ per il timore che la sua reputazione aveva suscitato in noi, un po’ perché sospettavamo potesse essere, semplicemente, “pesante” come tanti altri classici bellissimi ma non esattamente di semplice fruizione. Maledette noi e i nostri preconcetti! Adesso vorremmo aver perso meno tempo e averlo letto prima, perché è davvero fantastico.

Non vorremmo dare false impressioni: la storia narrata da Achebe non è esattamente a lieto fine e non risparmia al lettore un certo grado di brutalità, ma la sua prosa è così potente ed evocativa, pur rimanendo estremamente sintetica, da catturare il lettore fino all’ultima pagina senza dargli nemmeno il tempo di prendere fiato. È un narratore d’altri tempi, quasi quello che in molte zone dell’Africa chiamerebbero “griot”, e sa come trascinarci con sé nel suo mondo, fatto di proverbi e leggende e di tutti quegli espedienti tipici della narrazione orale tradizionale. 

Protagonista, o per meglio dire filo conduttore di questa storia, è Okonkwo, uomo igbo che vive nella Nigeria orientale interna precoloniale, dove le usanze più antiche si sono mantenute intatte e gli inglesi con la loro religione cristiana non sono ancora giunti. Siamo alla fine dell’Ottocento e Achebe ci racconta, attraverso le traversie del protagonista, come si svolgesse la vita all’interno di un villaggio igbo, quali fossero le regole da seguire, le credenze, le tradizioni e la quotidianità. Vi sembrerà quasi di guardare un documentario etnografico, uno di quelli piacevoli e rilassanti, in cui ci si immerge totalmente nella vita di un villaggio e se ne osservano da vicino tutti i componenti, affezionandosi agli uni e sviluppando insofferenza per altri, calati nella loro esistenza in modo così intimo da seguirne anche gli eventi più futili ma assistendo allo stesso tempo ai grandi cambiamenti che ne influenzeranno il futuro.

Attorno a Okonkwo, guerriero valoroso e grande lavoratore, ruota una galassia di personaggi più o meno importanti, dalle sue tre mogli ai numerosi figli, dai parenti più lontani agli amici e compagni di battaglia. Al di là delle possibili perplessità riguardo alla pronuncia di nomi a cui non siamo abituati, non sarà difficile riconoscere gli uni dagli altri, perché una delle doti più spiccate di Achebe è quella di saper ritrarre alla perfezione un personaggio in solo due frasi, quasi usasse precisi colpi di pennello, donandocene una percezione fisica realistica e dettagliata che ne lascia trasparire al tempo stesso la complessità psicologica ed emotiva.

Okonkwo è un personaggio grigio, sfaccettato, di cui capiamo perfettamente motivazioni e mentalità pur trovando alcune delle sue scelte discutibili se non profondamente disturbanti. Achebe non vuole farci amare questo personaggio in particolare, così come non gli interessa presentare la Nigeria precoloniale come un paradiso in cui tutti vivevano in pace e in armonia senza alcun problema. Ciò che l’autore vuole è dipingere un mondo ormai scomparso nel modo più oggettivo possibile, con i suoi pregi e i suoi difetti ma soprattutto con le sue dinamiche, che nel bene e nel male hanno funzionato a lungo prima dell’arrivo dei bianchi. 

I bianchi, purtroppo, entrano in scena nella seconda metà del romanzo e con l’invasione coloniale l’equilibrio della società indigena va in pezzi. Quando i primi missionari iniziano a insinuarsi all’interno del territorio, ad apportare cambiamenti e a esercitare la propria influenza, soprattutto attraverso la religione, si percepisce distintamente il pericolo, l’ansia di un mondo sotto attacco non solo militarmente ma soprattutto culturalmente. Un mondo che oggi non esiste praticamente più perché, nel giro di cento anni, è stato completamente sradicato e cancellato. È questo il “crollo” a cui Achebe fa riferimento nel titolo del romanzo: il completo collasso di un popolo e della sua cultura quando questi entrano in contatto con la violenta ambizione degli europei.

Quando Achebe scrisse quest’opera fece molta fatica a trovare un editore disposto a pubblicarla e distribuirla in Europa e in America: dovette sopportare più di una risata di scherno, oltre a commenti raggelanti che mettevano in dubbio la possibilità che agli abitanti di questi Paesi potesse mai interessare ciò che aveva da raccontare un africano. Fortunatamente per noi Chinua Achebe credeva profondamente nel valore del proprio lavoro e non si arrese, perché noi oggi ancora possiamo godere di quest’opera che non smette di risultare affascinante. 

Dobbiamo ammettere che dopo esserci interrogate a lungo sulle intenzioni dell’autore, ci siamo convinte che questo romanzo sia stato scritto prima di tutto per i nigeriani e, per estensione, tutti gli africani, perché potessero leggere davvero di se stessi all’interno delle pagine di un libro (e non raccontati come misteriose creature attraverso gli occhi di un bianco, come era stato con autori anche fondamentali quali, ad esempio, Conrad) e perché allo stesso tempo potessero credere al valore delle storie che loro avevano da raccontare. Questo è ciò che ha reso davvero grande Achebe: aver dato una voce internazionale agli emergenti scrittori africani. Fatto però che non deve lasciar intendere che la lettura risulti ostica per un europeo che decide di approcciarvisi; è anzi una delle capacità incredibili di Achebe quella di narrare con uno stile chiaro e semplice realtà che per il lettore sono aliene. Sono molte le parole in igbo che l’autore inserisce all’interno della narrazione, ma non serve nemmeno un glossario (sebbene venga fornito in coda al romanzo) perché è tutto spiegato all’interno della narrazione stessa, tutto trasparente, immediato. Achebe, ben conscio dello sforzo che ha deciso di compiere, vuole essere compreso e porta a casa il risultato magnificamente.


Le cose crollano è una lettura intensa, che ha saputo suscitarci mille emozioni e riflessioni. Non si limita alle classiche descrizioni di savana e giungla incontaminata, né si concentra soltanto sul mondo maschile, ma ci dà un’esperienza così ricca della Nigeria precoloniale da lasciare il segno. È un romanzo molto breve, ma voltando l’ultima pagina rimane una sensazione amara in bocca, perché si vorrebbe fosse lungo almeno il doppio. Personalmente riteniamo di non essere ancora sazie della scrittura di Achebe e finora non abbiamo incontrato nessuno che, avendo letto questo romanzo, non ne sia rimasto profondamente stupito e coinvolto. Non perdete tempo, quindi, e andate subito a recuperare quest’autore fondamentale: ci ringrazierete.

Elena e Manuela

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