La libreria di passaggio Voci di comunità

L’invincibile estate di Liliana

Come si fa a parlare di qualcosa che non ha nome? Come si può discutere, combattere o denunciare un fenomeno non ancora riconosciuto?

È di questo, o meglio anche di questo, che tratta il libro che vogliamo proporvi questo mese per la libreria di passaggio: “L’invincibile estate di Liliana”, scritto dall’autrice messicana Cristina Rivera Garza e uscito nel 2023 per Edizioni Sur.

Cristina Rivera Garza è una scrittrice assai celebre nel suo Paese d’origine ed è stata tradotta in molte lingue, mietendo riconoscimenti anche a livello internazionale con i suoi romanzi così come con i suoi racconti e raccolte di poesie. Un’autrice eclettica, che ama sperimentare con le tematiche ma anche con i generi letterari, e che purtroppo arriva qui sui nostri scaffali solo ora. Beh, meglio tardi che mai: sicuramente questo libro in particolare è un’opera urgente anche per l’Italia.

“L’invincibile estate di Liliana” non è un romanzo, ma un’opera di non-fiction, un mash-up tra memoir e biografia. È la storia di Liliana Rivera Garza, sorella minore della scrittrice, morta il 16 luglio 1990 per mano del suo ex fidanzato. O almeno così si ritiene, visto che l’uomo, immediatamente segnalato alla polizia, riuscì a fuggire anche grazie alla lentezza delle indagini e al disinteresse delle forze dell’ordine, rimanendo da allora irrintracciabile, cosicché il delitto è rimasto impunito.

Eppure l’autrice non ci sta a permettere che sua sorella scompaia dalla memoria e dagli archivi, come un numero tra le tante, un’ombra che ha camminato troppo brevemente su questa terra per lasciare un segno imperituro. È anzi per il senso di colpa di aver lasciato trascorrere così tanti anni nell’inazione che finalmente trova la forza, il coraggio e la voce di ricostruire la storia di Liliana e di condividerla con tutti noi che non abbiamo potuto conoscerla.

Liliana era una ragazza speciale, solare e determinata, ed è anche per questo che la scrittrice sceglie di ricordarla attraverso una citazione di Camus che la sorella aveva scelto per sé: “Nel cuore dell’inverno imparai finalmente che in me c’era un’invincibile estate”. Liliana era una ragazza libera, forte e piena di vita, posseduta da un’estate senza fine, ed è così che oggi rimane impressa su queste pagine.

“L’invincibile estate di Liliana” è un libro che parla di femminicidio. In Messico il femminicidio è una piaga sociale enorme, che miete migliaia di vittime ogni anno. Dalle statistiche più recenti sono almeno 10 al giorno gli omicidi di donne per mano di familiari, amici o amanti, senza contare le migliaia di donne che scompaiono nel nulla e di cui non si viene a sapere più niente. Numeri che sono andati aumentando, peraltro, in seguito all’epidemia di Covid.

In Italia siamo messi un po’ meglio ma non troppo: si ritiene che solo quest’anno si sia consumato un femminicidio ogni 3 giorni. In Messico il femminicidio è stato riconosciuto come reato solo dal 2012. Prima di allora era classificato come delitto passionale e per questo ritenuto in fondo meno grave o in qualche modo giustificato dalle azioni e dalle scelte della vittima stessa. Non ci suona strano: quante volte, ancora oggi, ci tocca leggere di “raptus passionali” sui giornali o di sentire al telegiornale le parole “troppo amore” associate a omicidi in cui le vittime sono delle donne?

La colpevolizzazione della vittima, che da sempre accompagna queste storie, è un altro meccanismo sociale che ben conosciamo. È un modo per la società di prendere le distanze, di proteggersi dall’orrore, così da potersi raccontare che a noi non potrà succedere, non sarebbe successo, perché il difetto era nella donna, in qualcosa che ha fatto o che avrebbe potuto evitare di fare in modo da proteggersi. Soprattutto è il frutto di un lavaggio del cervello che si tramanda da secoli nella nostra società e che ci viene praticato fin da piccoli, quando ancora bambini veniamo in contatto con la violenza o le molestie, quando un bambino tira le trecce a una bambina o la maltratta e gli adulti, sorridendo inteneriti, le dicono che è perché lei gli piace.

Cristina Rivera Garza descrive così il mondo del 1990, in cui sua sorella una notte ha trovato il suo assassino nel proprio appartamento:

“Erano chiamati delitti passionali. Erano chiamati ha preso una cattiva strada. Erano chiamati perché si veste così? Erano chiamati una donna deve sempre stare al suo posto. Erano chiamati qualcosa deve aver combinato per fare quella fine. Erano chiamati i genitori la trascuravano. Erano chiamati la ragazza che ha preso una decisione sbagliata. Erano chiamati, addirittura, se lo meritava. La mancanza di linguaggio è impressionante. La mancanza di linguaggio ci lega, ci soffoca, ci strangola, ci spara, ci scuoia, ci fa a pezzi, ci condanna”.

Questo breve passo introduce anche altri due temi molto forti del libro. In primo luogo abbiamo la riprovazione sociale che colpisce non solo la memoria della vittima ma anche la famiglia della stessa. Una donna, specie se giovane, è anche una figlia, e i suoi genitori non possono esimersi, di fronte alla comunità, dal farsi carico della colpa per la sua morte, almeno in parte. Questo è quanto ha vissuto sulla sua pelle la famiglia di Liliana e anche il motivo per cui per quasi trent’anni non ha agito con maggior determinazione per reclamare giustizia.

Parlare della morte di Liliana, temevano, avrebbe avuto come unico risultato quello di attirar ancor più critiche sulla ragazza, quasi che denunciarne l’omicidio potesse procurare alla vittima una cattiva pubblicità e rovinarne la reputazione persino dopo morta. Dunque è il silenzio l’unica possibilità rispettabile per i genitori, ed è così che l’orrore di ciò che è capitato a Liliana e a migliaia di donne come lei scivola nell’oblio, anno dopo anno.

Il silenzio è l’oceano in cui affonda il dolore della famiglia e ciò che rende il lutto ancor più difficile da affrontare. Ci pare quasi superfluo sottolinearlo, ma “L’invincibile estate di Liliana” è anche, per forza di cose, un libro sull’elaborazione del lutto. Una perdita così tremenda, avvenuta nel fiore degli anni di una ragazza in salute e in apparenza senza problemi, non può non lasciare un vuoto incolmabile dietro di sé.

Cristina Rivera Garza e la sua famiglia hanno dovuto imparare a convivere con quell’assenza, con l’indicibile causa di quella morte e con l’inevitabile senso di colpa che l’ha accompagnata. Quest’opera è, a suo modo, anche la fine di quel percorso di riconciliazione per l’autrice.

Infine, è sull’importanza delle parole e delle definizioni che si focalizza l’attenzione della scrittrice. Quando un fenomeno non ha un termine specifico che lo definisca è più complicato parlarne. Le parole usate sono sempre riduttive, manchevoli o ingannevoli, si avvicinano ma mancano il punto. La parola femminicidio è di recente creazione e sono ancora molte le persone che non capiscono la differenza tra un omicidio in cui la vittima è una donna e un femminicidio.

Liliana non è stata uccisa durante un furto andato male, non è morta per errore o per un regolamento di conti tra clan. Liliana è stata uccisa perché donna, perché si era innamorata del ragazzo sbagliato e poi l’aveva lasciato, perché aveva intenzione di farsi una nuova vita, avere nuove relazioni, magari lasciare il Messico per studiare all’estero. Tutte cose che il suo ex fidanzato, un ragazzo ossessivo e violento, non era disposto ad accettare.

Forse oggi, grazie all’esistenza del termine femminicidio, Liliana e i suoi amici avrebbero preso coscienza del pericolo, del problema. Forse avrebbe almeno potuto parlarne, avrebbe potuto raccontare a qualcuno cosa le stava succedendo. Nel 1990, però, non c’era modo di segnalare alla polizia uno stalker, perché nessuno aveva ancora classificato quel genere di situazioni come molestia. Non si sapeva, o si fingeva di non sapere, che uno schiaffo è solo il primo passo verso una serie di aggressioni ben più violente e potenzialmente letali. Per questo raccontare la storia di Liliana allora era impossibile, ma adesso invece abbiamo le parole per farlo ed è anzi necessario farlo.

Vorremmo concludere questo invito alla lettura mettendo al centro ancora una volta la figura di Liliana Rivera Garza. Sua sorella, scrivendo questo libro, ha portato a termine un lavoro di ricostruzione della sua vita imponente. La storia di Liliana è narrata attraverso i ricordi di Cristina, ma principalmente attraverso le memorie e i racconti dei suoi amici più cari, i suoi compagni di università, punteggiate dalla trascrizione di intere pagine del suo diario personale.

Cristina Rivera Garza condivide con noi foto, biglietti d’auguri e soprattutto il lato più privato e vulnerabile di Liliana, la ragazza che avremmo conosciuto incontrandola per i corridoi della scuola o in un bar, riuscendo comunque a rispettarne l’intimità e i sentimenti più reconditi.

Chi era Liliana Rivera Garza? Una ragazza semplice, cresciuta negli anni ’80, appassionata di musica e arte, che voleva diventare architetto e sognava di viaggiare. Una giovane donna intelligente e determinata, che attirava a sé l’amore con la propria naturalezza e la sua capacità di accogliere e ascoltare gli altri. Se volete conoscerla anche voi, vi consigliamo caldamente di immergervi nelle pagine dolceamare di questo libro. Per celebrare la sua vita e non solo ricordare la sua morte.

Elena e Manuela

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