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Rappresentazione e politicamente corretto: perché la rivoluzione non passa in TV

Panem et circenses: sostentamento e intrattenimento. Oggi intendiamo questa massima come la ricetta dei demagoghi per mantenere la pace sociale senza la gravosa contropartita di assicurare il buon governo ai cittadini. 

In realtà, essa fu coniata dal poeta latino Giovenale (Satire, X) per mettere alla berlina il popolo di Roma, a suo giudizio troppo gretto e miserabile per preoccuparsi di altro dal riempirsi lo stomaco e applaudire ai giochi pubblici. Artefice parimenti di frasi fatte (di suo pugno è anche l’intramontabile mens sana in corpore sano) e di invettive contro la gioventù del suo tempo (l’emancipazione femminile era il suo massimo cruccio), Giovenale si guadagnerebbe oggi un sonoro ok boomer su Twitter. Ma come il proverbiale orologio rotto, perfino un pezzo dell’eredità letteraria di un moralista d’allora può rivelarsi utile per illuminarci sui moralisti di adesso.

Piú ancora del periodo storico in cui Giovenale visse, la società occidentale sta attualmente attraversando uno dei maggiori spartiacque culturali della sua storia. Lo si percepisce dalla crescente polarizzazione di qualsiasi dibattito pubblico. L’avvento di Internet, in particolare, sembra aver scatenato una guerra spietata ai valori che un tempo erano considerati universalmente condivisi e indiscutibili. 

Se in passato furono l’eresia e il socialismo a minacciare l’ordine morale costituito, i leviatani moderni sono il politicamente corretto e la cancel culture, la misteriosa teoria gender e il femminismo. Teatro di questo scontro sono i media, nei quali la politica ha trovato uno strumento potentissimo di comunicazione, fin dall’invenzione della propaganda ai tempi dei grandi regimi totalitari, e successivamente con la diffusione della televisione nel dopoguerra. 

Il rapporto sempre piú stretto tra informazione e spettacolo ha avvicinato la comunicazione politica, nella forma e nei contenuti, all’intrattenimento, fino a confondere i due registri comunicativi. Panem et circenses sono ormai un tutt’uno nei mass media, ma anche e soprattutto nella comunicazione digitale, dove è prassi incontrare appelli umanitari e pubblicità di prodotti superflui mischiati nella bacheca social o nelle storie degli utenti come in un calderone.

Gli ultimi mesi, segnati da una delle campagne elettorali piú vacue e meschine della storia repubblicana, hanno offerto molteplici esempi di come questioni mondane possano assumere una rilevanza estrema nel dibattito pubblico. Politici consumati, esperti commentatori e svariati carneadi dei social passavano con disinvoltura da questioni di sopravvivenza, ad esempio riguardo gli interventi strutturali necessari per affrontare le conseguenze avverse della guerra in Ucraina, ad accorate lamentazioni verso le ultime nefandezze del politicamente corretto. 

Di questi attentati alla morale tradizionale, ottengono maggior risonanza quelli connessi ai dibattiti socio-culturali che piú polarizzano l’opinione pubblica. Vere e proprie hit della campagna elettorale sono state la famiglia omogenitoriale comparsa in un episodio di Peppa Pig, di cui il primo partito italiano ha chiesto a gran voce la censura, e la scelta di affidare il ruolo di protagonista nel remake de La Sirenetta a Halle Bailey, un’attrice afrodiscendente. 

Dibattiti simili, d’altronde, sono sempre piú comuni in tutte le democrazie liberali odierne, dove la tutela della libertà di espressione e la diffusione commerciale di piattaforme comunicative come i social network permettono a gruppi anche marginalizzati di far sentire la propria voce, avanzando critiche e rivendicazioni contro sistemi sociali che raramente venivano messi in discussione prima. 

Già nel lontano 1996, l’antropologo statunitense Arjun Appadurai notava come gli immaginari che fino ad allora avevano costituito le due grandi possibili visioni del mondo, quello capitalista e quello socialista, si stessero frammentando. L’azione congiunta della decolonializzazione, del collasso del modello sovietico e della globalizzazione di matrice americana stava lasciando emergere punti di vista fino ad allora subalterni, primo fra tutti quello delle diaspore etniche e culturali. Quelle che un tempo erano sottoculture escluse dalla cultura dominante acquisirono così visibilità, divenendo popolari. 

Ad esempio, la diffusione globale dell’hip hop, che portò per la prima volta alla ribalta la cultura urbana delle comunità afroamericane, e l’esperienza degli statunitensi afrodiscendenti, rese note per la prima volta al resto del mondo le discriminazioni e le disuguaglianze che hanno poi costituito la base delle rivendicazioni del movimento Black Lives Matter. Tuttavia, quando un gruppo sociale diviene visibile, esso diventa spesso anche un potenziale consumatore di prodotti mediatici. Così, l’industria dell’intrattenimento ha iniziato a creare un’offerta di mercato per questi gruppi, includendo finalmente minoranze etniche, culturali e di genere nei propri prodotti. 

Per dirla in termini gramsciani, l’accesso al mainstream di culture precedentemente subalterne, in quanto espresse da comunità che erano tenute ai margini del corpo sociale, crea un conflitto con la cultura dominante, forgiata attraverso una produzione culturale che ha messo al centro per secoli lo sguardo e i valori delle élite, cementandone l’egemonia. 

Il cambio di etnia della Sirenetta o la famiglia omogenitoriale di Peppa Pig non minacciano certo la plausibilità del racconto, ma piuttosto il nostro senso dell’universale. Per secoli, la produzione culturale dominante ci ha propinato come esperienza umana generalizzabile quella dell’uomo bianco, e piú raramente della donna bianca, eterosessuale e di fede cristiana. 

La prospettiva dei grandi protagonisti di Manzoni, Dickens, Dumas e Tolstoj ci sembra incarnare quella del genere umano nella sua interezza, mentre essa è solo una delle molteplici esperienze umane. Se un classico tanto mal invecchiato quanto intramontabile come Via col vento fosse stato scritto dal punto di vista di Ruth, vero nome di Mami, la donna tenuta in schiavitù come bambinaia di Rossella O’Hara, esso sarebbe stato un testo molto diverso e probabilmente non avrebbe conosciuto la stessa fortuna letteraria.

Da questa prospettiva, sembra quasi che i moralizzatori di oggi abbiano ragione a temere, come novelli Giovenale, che il cambiamento culturale in atto possa far collassare i valori tradizionali. Tuttavia, va ricordato che quella dell’intrattenimento è un’industria che ha come obiettivo il profitto. 

Inserire rappresentazioni mediatiche diverse dal canone potrà anche indispettire coloro che hanno creduto fino ad ora di essere la misura di tutta l’esperienza umana, ma non va più lontano di così. Anche se nera, la Sirenetta troverà sempre la felicità nel cambiare tutto di sé per poter sposare il suo principe bipede; l’istituzione della famiglia borghese, fondata sul matrimonio e sulla prole, resterà l’unico modello lecito di convivenza anche tra persone dello stesso sesso. 

Senza una critica sistematica ai valori dominanti, come ci insegna bell hooks nel suo saggio eloquentemente intitolato Eating the Other, la fascinazione per l’Altro diviene un oggetto di consumo per lo sguardo dominante. La rappresentazione del subalterno e la sua deumanizzazione sono, purtroppo, perfettamente conciliabili.

Costruire un’esperienza umana stratificata, in grado di catturare le varie sfaccettature di tutto ciò che essa può includere, è auspicabile per l’arte, forse anche doveroso. Ma la cultura dominante non può offrire alcun cambiamento a livello sistemico. Come leviatano moderno, il politicamente corretto vale ben poco rispetto ad altre forze storiche che si proponevano realmente di rivoluzionare l’ordine sociale. 

È fondamentale, invece, approcciare qualsiasi prodotto culturale in modo critico, prestando attenzione ai valori che esso conferma piuttosto che alla diversità che esso ostenta in superficie. Separare la rappresentazione formale dal significato, o se vogliamo, l’intrattenimento dalle questioni politiche, è il primo passo per mettere davvero in discussione valori tradizionali che ormai ci stanno stretti.

Francesca Di Fazio

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