Economia e Politica Italia

A cosa servono le proteste sovversive degli ecoattivisti?

A cosa servono le proteste sovversive degli ecoattivisti?

Ad inizio gennaio 2023, alcuni attivisti di Ultima Generazione hanno lanciato vernice arancione contro la facciata di Palazzo Madama, scatenando l’indignazione di buona parte della classe politica italiana e di molti cittadini. Questa è solo l’ultima di una serie di azioni di disobbedienza civile che stanno prendendo piede a livello mondiale, in segno di protesta contro l’inazione della classe politica nell’affrontare i crescenti rischi legati al riscaldamento globale.

Per anni le organizzazioni ambientaliste hanno chiesto ai governi di adottare azioni più incisive per frenare una crisi climatica in continuo peggioramento. Richieste che per lo più sono cadute nel vuoto. E se i politici scelgono di ignorare le forme di protesta più sommesse, gli organizzatori si vedono costretti a escogitare modi più sovversivi per comunicare l’urgenza del loro messaggio.

Benché iniziative più moderate, come gli scioperi studenteschi dei Fridays For Future, siano state accolte con positività dalla maggior parte di politici e società civile, la recente ondata di attivismo radicale ha destato un forte malcontento che ha diviso l’opinione pubblica.

I dati raccolti da YouGov, un gruppo internazionale di ricerca e analisi dei dati con sede a Londra, confermano che la tolleranza e il consenso dell’opinione pubblica verso queste azioni stanno diminuendo: nel Regno Unito, ad esempio, il 73% dell’opinione pubblica ritiene le proteste inutili, mentre il 78% afferma che questo tipo di azioni ostacola la causa anziché aiutarla.

A questo punto, la domanda che sorge spontanea (anche da parte di chi in generale tende a simpatizzare con le questioni ecologiste) è soprattutto una: la disobbedienza civile funziona o sta solo danneggiando il movimento ambientalista?

Visibilità e attenzione pubblica

Compiendo azioni radicali si cerca di attirare l’interesse della società e della stampa su un problema che molto spesso fatica a ottenere il tipo di copertura mediatica che ricevono altre materie come l’immigrazione.

Si può essere profondamente in disaccordo con le tattiche dei manifestanti del cambiamento climatico che gettano zuppa di pomodoro su quadri di Van Gogh, ma il fatto stesso che ne abbiamo sentito parlare significa che tali strategie stanno in qualche modo funzionando.

I manifestanti radicali si trovano a questo punto di fronte al cosiddetto “dilemma dell’attivista”: è più vantaggioso compiere azioni moderate, ma che verranno probabilmente ignorate, o azioni più estreme che riescono ad attirare l’attenzione, ma che minano il sostegno dell’opinione pubblica? Una possibile risposta la possiamo trovare in numerosi studi compiuti da sociologi e esperti dei movimenti sociali.

In primo luogo, una ricerca condotta dall’Università di Bristol afferma che le proteste radicali aumentano la visibilità del problema indipendentemente dal sostegno pubblico per la causa e l’affetto verso i manifestanti. E può darsi che questo, in un mondo in cui i cambiamenti climatici non sono affrontati seriamente, sia considerato come sufficiente dagli attivisti.

Attivismo radicale e consenso politico

Un altro studio che ha osservato il caso dei militanti di Just Stop Oil, ha evidenziato come le azioni radicali non violente aumentino il sostegno all’ala meno rivoluzionaria del movimento, accrescendo le sue possibilità di raggiungere i suoi obiettivi (ovvero ampliare il supporto per la causa ambientalista).

Questo fenomeno è chiamato “positive radical flank effect”: l’esistenza di gruppi percepiti come estremi spinge la società civile e i decisori politici verso l’ala più moderata del movimento, rafforzando il suo potere negoziale.

Detto in parole povere, ciò significa che gesti percepiti come sovversivi e contro l’ordine pubblico, come i blocchi stradali di Extinction Rebellion o l’imbrattamento di famosi quadri da parte di Just Stop Oil, potrebbero aumentare la probabilità dei gruppi ambientalisti di raggiungere vittorie politiche.

Anche la storia conferma che, inizialmente, i manifestanti radicali sono spesso odiati e ridicolizzati. Peter Tatchell, un importante attivista per i diritti degli omosessuali nel Regno Unito, fu definito “l’uomo più odiato della Gran Bretagna”. Le suffragette vennero ridicolizzate e utilizzate come giustificazione per negare il voto alle donne. Oltre il 60% degli americani aveva un’opinione sfavorevole di Martin Luther King Jr. nel 1966, durante l’apice del movimento per i diritti civili. C’è da chiedersi se gli attivisti giudicati come criminali oggi saranno gli eroi di domani.

Ma qualunque sia la nostra opinione sul tema, la realtà dei fatti è che cortei e scioperi come quelli organizzati dai Fridays For Future sono serviti ad aumentare la sensibilità verso il cambiamento climatico, ma non sono ancora riusciti a influenzare l’agenda politica.

Forse la vera domanda che dobbiamo porci allora è: perché il fastidio che proviamo nel vedere un quadro di Van Gogh imbrattato di pomodoro non lo proviamo anche di fronte a delle scelte governative che stanno letteralmente distruggendo il nostro pianeta?

Questo tipo di proteste serve precisamente a colpire la percezione di indifferenza nella mente delle masse. Da questo punto di vista, far arrabbiare le persone non è necessariamente un effetto collaterale delle azioni degli attivisti, ma forse parte del loro stesso scopo.

Manuela Lucianer

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