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Un porto sicuro chiamato Scuola

Nel tentativo di contenere i contagi, in un momento in cui i sistemi sanitari nazionali non avrebbero retto un incremento delle ospedalizzazioni, i governi di tutto il mondo sono stati costretti alla chiusura degli istituti scolastici di ogni ordine e grado, andando a coinvolgere 1,2 miliardi di studenti e studentesse. La crisi sanitaria, con i suoi effetti, e le doverose misure adottate dalle istituzioni si sono inevitabilmente ripercosse sulle vite di bambini, ragazzi, giovani adulti e, andando a frantumare i delicati equilibri che stanno alla base dei singoli sistemi familiari, hanno portato a fior d’acqua piccole e grandi problematiche che caratterizzano la nostra fragile società.

Con la sospensione delle lezioni in presenza e, quindi, delle quotidiane relazioni interpersonali tra compagni e docenti, si sono configurate tante difficoltà per gli studenti che si sono dovuti adattare alla  modalità di didattica a distanza, al nuovo ambiente di studio o all’essere perennemente calati in un contesto familiare. Allo stesso modo hanno iniziato a farsi strada tante preoccupazioni riguardanti esami o opportunità di lavoro. Numerose famiglie, non disponendo delle risorse necessarie per proseguire il percorso di apprendimento da remoto, sono state costrette a fare i conti con gli impegni di studio dei figli – cosa non semplice, soprattutto quando il livello di scolarizzazione non è alto – e parecchi genitori hanno dovuto affrontare il complesso compito di seguire, senza alcun sostegno, figli con difficoltà nell’apprendimento o bisogni educativi speciali. Allo stesso tempo, milioni di famiglie sono state messe in crisi a causa dell’impossibilità di usufruire di servizi quali, ad esempio, la mensa scolastica: se in alcuni Paesi il disagio si è tradotto in una generale ricaduta economica che ha portato a cambiare le abitudini di spesa, nelle aree più povere, le famiglie sono state costrette a ridurre il numero dei pasti o a ricorrere al lavoro minorile. La cruda e terrificante conseguenza è che, oltre ad essere privati delle energie fondamentali per affrontare al meglio le attività giornaliere, bambini e ragazzi, poiché anch’essi responsabili dell’economia familiare, hanno rischiato di abbandonare gli studi anche una volta decretate le riaperture.

La scuola poi, oltre ad essere luogo di apprendimento, è anche un posto prezioso che di fatto tutela la salute di chi lo frequenta: per questo motivo governi, amministrazioni locali e istituti scolastici hanno tentato di mantenere attiva la didattica e di finanziare progettualità finalizzate al mantenimento del benessere fisico e psicologico di studenti e insegnanti. Secondo il primo rapporto Unicef-Unesco di ottobre 2020, in diversi Paesi, specialmente quelli a medio-alto reddito e reddito elevato, sono state poste in essere, sin da subito, iniziative volte a fronteggiare le criticità più significative: in più della metà degli stati sono state fornite ai genitori informazioni per aiutare i figli nelle lezioni a distanza e in un cospicuo numero di Paesi le famiglie sono state sostenute attraverso consulenze psicologiche, contributi e bonus per spese alimentari o per l’acquisto di dispositivi tecnologici. Certo è che, se nei Paesi più ricchi le possibilità e le risorse per gestire in maniera più o meno adeguata l’emergenza non sono mancate, in quelli a medio-basso e basso reddito le misure adottate sono risultate blande, di complessa o impossibile attuazione. In tanti stati l’emergenza sanitaria ha rappresentato l’ennesima crisi che si è sommata alle altre già presenti, dovute a conflitti armati, governi instabili, catastrofi naturali o al cambiamento climatico. Nei Paesi a basso reddito si sono perse più del doppio delle giornate di scuola rispetto agli altri, non tutte le istituzioni scolastiche sono riuscite, durante la chiusura, a proseguire le lezioni da remoto, monitorare l’andamento dell’apprendimento dei bambini e, successivamente, riprendere con la didattica in presenza, perché prive dei fondi necessari per l’applicazione delle basilari misure di sicurezza come il lavaggio delle mani, il distanziamento sociale e per l’acquisto di dispositivi di protezione individuale.

Sempre dalle indagini, promosse dalle diverse nazioni, sulla gestione della pandemia in ambito educativo emerge che un terzo dei paesi poveri non ha previsto misure per sostenere l’accesso o l’inclusione degli alunni a rischio di dispersione scolastica. Questo dovrebbe preoccuparci fortemente: il contesto familiare non è per tutti il luogo più sicuro in cui stare e, in determinate aree, la probabilità che “dimora” divenga sinonimo di “pericolo” è ancora più alta. Essere confinati in casa per molti comporta il rischio di subire o assistere a violenze domestiche, maltrattamenti e aggressioni. La chiusura delle scuole, soprattutto per bambine e ragazze, può tradursi in una condanna agli abusi e, specialmente dove vivono famiglie in grave difficoltà economica, è stato registrato un incremento di casi di sfruttamento sessuale, matrimoni forzati e gravidanze indesiderate. 

Analizzare attentamente quali siano stati gli effetti sull’apprendimento, l’educazione e la formazione delle generazioni più giovani servirà non solo a capire quale sia stato l’impatto dell’emergenza sulla vita dell’uomo in generale ma anche per convincerci che alcuni problemi hanno, evidentemente, rilevanza globale. Se in determinate aree bambini e bambine non hanno accesso ad un’educazione scolastica, prima o poi, ne risentiranno, oltre alla società del Paese in questione, anche i popoli di altre nazioni. Una stretta collaborazione tra stati, che guardi prioritariamente anche all’istruzione, potrà, da un lato, mitigare le conseguenze negative provocate dalla pandemia tuttora in corso e, dall’altro, prevenire quelle delle crisi future. 

Assia Zoller

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