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Residenza: è o non è un diritto?

Talvolta ciò che sembra una mera pratica burocratica quotidiana, per altri può significare molto di più.

Ritirare la propria carta di identità o la propria tessera sanitaria o, perché no, andare a votare, magari lamentandosi di doverlo fare.

Ecco, per esercitare una gran parte dei nostri diritti in quanto cittadini italiani o residenti in Italia, è requisito fondamentale eleggere una residenza. 

Dico eleggere perché, come precisato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2000, “l’iscrizione anagrafica non è un provvedimento concessorio, bensì un diritto per il cittadino e un obbligo per l’ufficiale dell’anagrafe.” 

Il che significa che la residenza di un cittadino dovrebbe essere materia indiscutibile: una semplice constatazione, da parte dell’amministrazione pubblica, al fine di rendere “reperibile” il cittadino. 

Questo è fondamentale, in quanto proprio alla residenza sono legati gran parte dei diritti fondamentali della persona che vive sul territorio del nostro paese.

Il Diritto alla salute, in quanto senza residenza non ci si può iscrivere al Servizio Sanitario Nazionale, né avere un medico di base, né usufruire delle esenzioni previste; il Diritto agli ammortizzatori sociali, in quanto senza residenza non si può avere diritto alla pensione sociale né di invalidità; il Diritto di voto, in quanto senza residenza non si appartiene a una circoscrizione elettorale. Diritto al lavoro, in quanto senza residenza non è possibile iscriversi all’agenzia delle entrate né aprire partita IVA; il Diritto alla difesa, in quanto senza residenza non si può accedere al gratuito patrocinio.

Consci di ciò, un esempio: è impattante ripercorrere la storia politica degli ultimi anni, quando l’art. 13 del Decreto-Legge n. 113/2018, convertito con modificazioni nella Legge n. 132/2018, noto come “Decreto Sicurezza,” anche detto “Decreto Salvini”, aveva tolto il diritto all’iscrizione anagrafica dei cittadini stranieri richiedenti asilo. 

Il divieto è decaduto nel 2020, dichiarato illegittimo con sentenza della Corte Costituzionale: infatti, tralasciando l’aspetto dell’articolo 13 – a mio avviso razzista e discriminatorio – la Corte ha individuato come senza la residenza si rendesse irragionevolmente più complicato l’accesso ai servizi e l’esercizio dei propri diritti, a fronte di ostacoli burocratici e pratici (le richieste di erogazione dei servizi richiedono sempre la residenza. Inoltre, individuare un domicilio è molto più difficile e non garantisce “certezza”).  

Purtroppo, la questione della residenza è di vitale importanza per molte persone che vivono in Italia. 

Basti pensare alla popolazione senza dimora, più di 50mila cittadini che vivono in una condizione di fragilità e, non avendo accesso alla residenza, alimentano questo circolo dal quale diventa molto più complicato emanciparsi.

I numerosi richiedenti asilo che tutt’oggi non ottengono un posto in accoglienza né in CARA (Centri di accoglienza delle persone richiedenti asilo) né in CDA (Centri di prima accoglienza) e nemmeno nei Centri di Accoglienza Straordinaria che dovrebbe garantire loro il nostro Paese, dichiarando, in sede di domanda di protezione internazionale, di essere senza mezzi economici per mantenersi: si trovano così a vivere in strada, ospiti di amici, sopravvivendo alla giornata, nonostante la fragilità della loro posizione “socio-politica”. 

Queste persone si ritrovano di conseguenza senza residenza e sono forzate a pagare per ottenerla, entrando a contatto con reti criminali, o a rimanerne prive, perdendo anche i numerosi diritti di cui abbiamo già parlato.

Si può pensare anche a numerose persone che vivono in appartamenti protetti, residenze sociali temporanee di cooperative e associazioni che spesso, per problematiche burocratiche, non ottemperano ai loro obblighi e non garantiscono la residenza.

Tuttavia l’articolo 43 del Codice Civile enuncia che: “Il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale.”

Dunque, se anche il nostro ordinamento giuridico ci dice che la residenza non è un qualcosa di irraggiungibile e lontano per decine di migliaia di persone, ma un diritto che deve essere riconosciuto, perché il sistema “burocratico” del nostro Paese ne rende così difficile l’accesso?

Per fortuna, una parziale soluzione si trova con la “residenza fittizia” che è considerata un luogo di dimora abituale e dunque valido per eleggere la propria residenza; nelle città italiane è un servizio erogato in diversi modi: dagli sportelli dedicati, all’accesso tramite i servizi sociali. 

Solitamente, l’unica condizione è che esista un legame tra il luogo in cui la persona richiede la residenza fittizia e gli interessi abituali della stessa. 

La Circolare Istat 29/1992  infatti ha stabilito che ogni Ufficio Anagrafe deve registrare la persona senza tetto o senza dimora nel registro della popolazione residente, eventualmente istituendo una via ad hoc, che possa o meno esistere dal punto di vista toponomastico sul territorio. 

La residenza fittizia è quindi la risposta più efficace alla tematica del diritto alla residenza, anche se purtroppo sono riportati numerosi casi in cui non è stata riconosciuta o accettata, illegittimamente, in occasione della presentazione della domanda di erogazione di un servizio.

Inoltre, seppur più di duecento città in tutta Italia abbiano istituito delle vie fittizie, la strada è ancora lunga per coprire tutto il Paese: il diritto alla residenza per essere esercitato deve essere accessibile. 

E’ l’accessibilità che fa la differenza in queste situazioni: è l’accessibilità che evita che il cittadino, magari straniero e che conosce poco il territorio, si debba rivolgere al racket, disperato, per pagare cinquecento euro una residenza che gli permetta di rinnovare i documenti.

Federico Uez

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