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Perché il mercato?

Era un dolce sabato  d’ottobre. In quell’immenso tepore pomeridiano, in quella blandissima luce velata di nubi e vapori, in quell’aria fresca qua e là attraversata dal sole, io mi sentivo tutto invaso della voglia di non fissare la mia mente su alcunché di preciso, mi sentivo quasi fuori di me, come in trance, smanioso soltanto d’acquistare; e non so proprio quanto girovagai, con i piedi e con i  pensieri, per le vie del centro di Bologna, prima di arrivare al mercato. 

Verso le tre, la piazza dell’8 agosto, aveva vestito la sua consueta spettrale nudità del bianco colore dei tendaggi, corone degli innumerevoli banchi straboccanti di roba. Montagne di giacche e di camicie e di polo e di maglioni gravavano mollemente sul ferro vecchio delle bancarelle. Pile di jeans, accatastati l’uno sull’altro, dipingendo tutte le tonalità del blu, si lasciavano carezzare da mani infinite. Sciarpe e cappelli d’ogni colore li si desiderasse, erano tutti esposti in fila, quasi vellutato arcobaleno. Poi, l’innumerevole folla degli avventori. L’anziana, pallida di carnagione, col volto grinzoso, eccola passare fra le scheletriche, esili dita una sciarpa a saggiarne la qualità della stoffa. Ecco una giovane coppia provare vicendevolmente i vestiti e scattarsi foto l’un l’altro e sorridere e sorridere ancora. Ecco gli amanti dello stile, cogli occhi sgranati e colle mani veloci, in caccia del capo perfetto, unico, inimitabile. Ed ecco confusa ed indistinta una folla sfilare fittissima per le vie strette a mezzo le bancarelle, in caotica processione. Regnava per ovunque un caos allegro e sereno, la cui vista faceva sorgere in me alcune domande: quale ragione spinge oggi una tanto variegata moltitudine di persone ad accorrere trepidante in un simile luogo? Perché, data la centralità della piazza, non i vicini Zara, H&M, Pull bear etc.. Perché questo luogo vive?

E le ragioni che io mi diedi, furono di due tipi: la prima etica; la seconda di carattere più propriamente estetico. Di esse parlerò in quest’articolo.

L’uomo ha il naturale bisogno di coprire la propria nudità. Grazie al miglioramento delle condizioni di vita a seguito della seconda guerra mondiale, nel mondo, specialmente in occidente, sempre più persone hanno potuto godere del privilegio di scegliere, d’indossare, di cambiare vestito secondo il loro gusto; di eleggere un capo d’abbigliamento poiché  esatto specchio della loro personalità; di cercare, ognuno, lo stile. Ciò ha permesso la smisurata crescita di un’intera industria. E dopo l’ottantanove, con il diminuire del costo del lavoro e l’aumentare massiccio della domanda di vestiti, è sorto, sul terreno fertile di un desiderio globale, il ciclopico circolo affaristico delle grandi aziende di moda a basso costo. La loro promessa al consumatore è semplice: “Tu potrai vestire, con modica cifra, quello che vedi sulle passerelle, tu potrai cambiar d’abito quante volte vuoi, tu potrai sempre essere alla moda”. Tutte le creazioni dei grandi marchi sono scopiazzate ed offerte in pasto al gusto grossolano di compratori entusiasti nelle ampie sale climatizzate  dei palazzi centrali d’ogni città. Le vecchie residenze aristocratiche, prima sede di esclusivissimi balli, sono ora inondate di gente e di roba, che entra ed esce, continuamente, con la rapidità d’un sospiro. Breve è il tempo che il cliente impiega a scegliere; breve la vita di un vestito sullo scaffale; brevissima quella di una collezione. Tale visione sulle prime potrebbe apparire superba: l’antico giogo aristocratico che gravava sulle spalle d’un popolo inerte è caduto; tutti sono uguali; ognuno, senza distinzione, può vestire secondo il suo gusto; la democrazia trionfa. Eppure l’alloro che corona questa colossale vittoria, l’alloro che cinge i capi di queste aziende, mostruose nella loro grandezza, insaziabili nel loro appetito di denaro, questo alloro, in apparenza così luminoso, così giusto, quasi simbolo del riscatto del mondo, nasconde  invece  al suo interno un germe che lo fa marcire e che rende, a chi lo veda, la vista di tale trionfo insopportabile; e questa particolare malattia ha due colori: il rosso, che è il sangue di coloro che sono sfruttati; il nero, che è il tossico fumo esalato dalla polluzione. 

Negli ultimi vent’anni si stima che un capo sia indossato dieci volte prima d’esser gettato. E la fugace durata del desiderio d’ognuno, unita all’appetito smodato di denaro, ha un prezzo: 1.7 miliardi di tonnellate di CO2, 1500 miliardi di litri d’acqua, il 35% delle microplastiche negli oceani, 92 milioni di tonnellate di rifiuti. Questi numeri fanno d’una simile industria la seconda più inquinante del pianeta .

I prodotti che queste aziende offrono sono d’infima qualità, composti di fibre sintetiche, lavati da pesticidi, tinti da coloranti. E l’avara e vile logica del mercante che sempre cerca di risparmiare, fin dove è possibile, trova, nei paesi in via di sviluppo, la sua apoteosi. Qua nessun limite è posto. Qua nessuno si preoccupa dei luoghi, degli uomini. 

Degli uomini, appunto. Campeggiano, per ogni dove, mastodontici manifesti raffiguranti ragazzi nel fiore degli anni, provenienti da ogni nazione, con indosso quei vestiti di cui or ora abbiamo parlato. Ogni etnia è rappresentata. Oh, ipocrisia del mondo contemporaneo! Come sarebbe bello cancellare i propri delitti con un poco di pubblicità progresso! 

Cina, Bangladesh, Cambogia, Laos: in questi luoghi lontani dalla tranquilla coscienza dell’ignaro consumatore europeo sono perpetrati i misfatti più atroci. Governi compiacenti, in cerca di denaro, lasciano le aziende, grazie ad una legislazione sul lavoro quasi assente, sfruttare un popolo affamato, con turni massacranti, con paghe da fame, in fabbriche dentro le quali il significato della parola “sicurezza” è sconosciuto. Si pensi, per citare un esempio, al crollo del Rana Plaza in Bangladesh. Nel 2013, a Dacca, un intero edificio di otto piani crollò a causa della colpevole incuria degli uomini. Contenuta in esso era un’immensa fabbrica tessile con oltre tremila operai: ne spirarono quel giorno 1138. L’ultima cosa che videro fu l’infame prodotto del loro lavoro, l’ultima sensazione che traversò il loro corpo fu la fatica. 

Il mondo reagì com’è solito: s’indignò, pronunciò belle e solenni parole, e subito dimenticò tutto. 

Tuttavia, non dall’alto dei palchi dove sbraita l’ipocrita politicante, ma nelle strade dove l’uomo comune s’affatica, negli ultimi anni, è possibile rintracciare una nuova consapevolezza. Il consumatore è sempre più conscio delle atrocità che filano i colorati maglioni disposti in ordine sugli scaffali. Egli sempre di più ne vede il marcio e sempre di più lo disprezza. E un sempre maggior numero di persone sceglie il mercato. 

Nel mercato  si trovano tutti quei vestiti che furono scartati o rimasero invenduti. Qui essi vivono una seconda vita, forse migliore dalla precedente: prima sfilavano in ordine assieme ad esemplari a loro identici; ora giacciono scomposti sulle bancarelle, unici nel loro genere: ciò che doveva diventare rifiuto, scopre invece la sua reale bellezza. 

E così veniamo alla questione estetica. Quando in un grande negozio acquistiamo un capo di abbigliamento, esso, in una certa misura, non ci appartiene, poiché migliaia di altre persone lo possiedono identico. Questo non succede al mercato: ogni cosa acquistata è soltanto nostra, non condivisa con nessuno, unica; soltanto all’interno di un mercato è possibile, ad un costo modicissimo, avere la certezza di un possesso perfetto. E per di più la fattura è molto migliore rispetto a quella  che viene dai grandi marchi offerta. 

Dirà lo scettico: è sempre difficile trovare un vestito della mia taglia, è sempre difficile trovare qualcosa che si possa indossare tutti i giorni. 

Ciò è vero nella misura in cui non si abbia la voglia di aguzzare la vista. Tutto è mescolato fra i banchi. È necessario avere la pazienza e la voglia di scovare quel pantalone, quella giacca, quel maglione, che sempre è nascosto, ma che sempre si trova, poiché destinato soltanto a noi.  

Il mercato, infatti, sviluppa quella sublime qualità che raramente è notata, ancor più raramente ricercata, quasi mai posseduta; quella qualità che permette d’abbinare, con delicata armonia, il colore d’una giacca a quello di una camicia; che rende lo svolazzare d’una sciarpa mobile specchio della nostra anima; che fa della piega d’un jeans, d’una manica, d’un calzino altrettante inclinazioni della nostra personalità; quella qualità che nasce con l’attenzione e il silenzio, che si sviluppa nella passione e nell’amore per ciò che si osserva, e si magnifica nella costanza della nostra ricerca. Una tale qualità porta, nella nostra lingua, un nome solo: grazia.

Gian Lorenzo Dini

© Riproduzione riservata

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