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Una questione di dignità

Fine vita, eutanasia e rifiuto delle cure rappresentano tematiche spesso fonte di confusione e fraintendimenti, come ci avverte G. Paissan nel suo articolo uscito mercoledì 22 settembre. Qui, più che il profilo prettamente medico, si vorrebbe guardare alla stessa tematica da un punto di vista giuridico e – perché no – filosofico. 

Un’avvertenza è però d’obbligo: la materia è vasta e implica una enorme quantità di questioni, spesso molto complesse per le implicazioni etiche che vi sottendono; perciò è chiaro che il discorso, adattato allo standard di un articolo, sarà in grado solo in parte di scalfire la superficie di un sì difficile argomento.

Premettendo che con il termine eutanasia si fa qui riferimento alla morte di un paziente affetto da una malattia inguaribile, fonte di sofferenze insopportabili, in ambito giuridico si usa distinguere tra eutanasia attiva, passiva e indiretta/pura: la prima si riferisce a un’azione positiva – una condotta attiva – con cui si procura la morte. 

La seconda invece si differenzia per avere ad oggetto non un’azione, bensì un’omissione, poiché la morte è qui cagionata attraverso la mancata prestazione di cure che potrebbero tenere in vita il paziente.

La terza riguarda l’applicazione di terapie del dolore, che alleviano le sofferenze del paziente ma determinano anche un accorciamento della sua vita. Quest’ultima si ritiene oggi essere pacificamente lecita (cfr. Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, Vol. II, tomo 1, IV ed.): le problematiche maggiori attengono alle altre due forme di eutanasia. 

Quella passiva infatti può considerarsi lecita se alla base dell’omissione della terapia vi sia un consenso validamente espresso dal paziente, cioè prestato nel possesso della capacità di intendere e volere: in questo caso l’interruzione delle cure è anzi doverosa, per evitare un accanimento terapeutico che violerebbe il diritto alla salute così come configurato dall’art. 32 Cost

Si capisce così anche l’importanza del cd. testamento biologico, fondamentale nel caso in cui il paziente si trovi a causa della sua malattia anche in una condizione di impossibilità di esprimere un consenso valido ai fini dell’interruzione delle cure. 

L’eutanasia attiva invece attualmente integrerebbe il delitto di omicidio del consenziente ex art. 579 cod. pen., poiché nel nostro ordinamento non è in nessun caso ammesso cagionare la morte di un uomo, nemmeno in presenza del suo consenso e di circostanze che giustificherebbero il fatto stesso anche da un punto di vista etico. 

Parrebbe così che l’unica via aperta per un paziente, che – lo ricordiamo – sia affetto da una malattia inguaribile e fonte di sofferenze insopportabili, consista nel farsi accompagnare in un paese in cui l’eutanasia attiva sia legale e ivi praticarla: chiaramente per l’eventuale accompagnatore si configurerebbe la possibilità di essere accusato di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 cod. pen.), ma grazie all’intervento della Corte Costituzionale del 2019 il fatto potrebbe ritenersi pienamente lecito, al ricorrere di determinati e rigidi presupposti.

Forse il reale problema della situazione italiana è la vigenza di un codice penale promulgato nel 1930, che, per quanto adattato alla sensibilità e alle esigenze della società attuale grazie al lavoro della Corte Costituzionale, rappresenta un insieme di valori almeno in parte sconnessi da quelli odierni. 

Nella particolarità di quest’ambito, non si può mancare di notare come nell’impostazione del codice Rocco la vita rappresenti un bene indisponibile per l’individuo: è un bene della collettività e perciò è inserito in un sistema di controllo puntuale e rigido, tipico di ogni regime dittatoriale e sicuramente anche di quello fascista.

Ci si potrebbe allora domandare se sia necessario un cambio di visuale, che metta in luce anche il valore della dignità: questa però, pur avendo un nucleo oggettivo di significato, si presenta con delle sfumature di necessaria soggettività, che sembrano essere troppo per una società che non è in grado di darsi delle certezze da sé.

Filippo Frisinghelli

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