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Fine vita, rifiuto delle cure ed eutanasia, tra deontologia medica e giurisprudenza

Fine vita, rifiuto delle cure, eutanasia. Molte volte questi concetti vengono utilizzati in maniera confusa ed errata. Ma qual è la differenza?  

Con fine vita si intende la presenza di una patologia inguaribile, progressiva in fase avanzata con prognosi infausta. È una situazione ricorrente che è da sempre trattata attraverso adeguate cure palliative. 

Con rifiuto delle cure si intende il diritto del paziente all’autodeterminazione: il malato può quindi accettare o rifiutare gli esami diagnostici e le cure, dopo una corretta informazione da parte del medico curante. Proprio questa è la zona grigia che ha messo in crisi la legislatura italiana all’inizio del millennio. Il rifiuto delle cure mette il paziente nelle condizioni di rigettare, tra le varie cose, un trattamento salvavita, portandolo a morte certa. 

Ben diverso è il significato di eutanasia. Con eutanasia si intende il procurare intenzionalmente la morte in un individuo, la cui qualità della vita risulti compromessa in maniera permanente, ovviamente con il consenso dello stesso. 

Si capisce quindi la grande differenza che sussiste tra le tre condizioni. Mediamente queste tematiche generano molta attenzione mediatica e sono anche socialmente divisive; tuttavia, purtroppo sono al centro di un dibattito superficiale e molto confuso. 

Ad oggi in Italia solo il trattamento di fine vita e il rifiuto delle cure sono legali. 

Soprattutto il diritto al rifiuto delle cure è frutto di un percorso tutt’altro che scontato: la possibilità che il dissenso del paziente venga accettato dai curanti senza problemi è per di più un fatto recente. Infatti, fino a qualche decennio fa, il vuoto legislativo sull’argomento poneva il medico nella posizione di non accettare questo tipo di richieste per paura di ripercussioni legali. 

Per far luce su questa tematica così vasta e complessa, è utile ripercorrere le tappe di un caso eclatante che ha spinto verso il cambiamento: il caso Welby.  

Piergiorgio Welby era un uomo affetto da una forma di distrofia muscolare, malattia che colpisce la muscolatura portando progressivamente il malato all’incapacità di utilizzare qualunque muscolo del corpo, compresi quelli respiratori. Una condizione clinica tanto grave esige un’assistenza medica invasiva e costante, attraverso ad esempio il ventilatore meccanico, uno strumento che sostituisce il respiro spontaneo. 

Alla fine degli anni Novanta, Welby fu soccorso in seguito ad una crisi respiratoria. I medici, visto lo stato critico del paziente, furono costretti all’uso di un ventilatore. Una volta sveglio, Welby, avendo compreso lo stato della malattia, chiese al curante l’interruzione di ogni trattamento. Questo però si oppose alla sua richiesta in quanto apparentemente in contrasto con le leggi vigenti. A questo punto Welby fece ricorso, ma lo stesso fu poi respinto.

In questo caso si può parlare sia di rifiuto delle cure in atto, sia introdurre il concetto di accanimento terapeutico. L’accanimento terapeutico è quella condizione in cui si utilizzano “procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita.” Da questo frammento dell’articolo 16 del codice deontologico medico, si capisce che, per definizione, l’unico soggetto in grado di  definire una determinata condizione come accanimento è il paziente: lui solo può giudicare la sua qualità di vita, applicando un parametro puramente soggettivo.  

È però in questo momento della storia di Welby che entrò in scena Mario Riccio, anestesista di Cremona.  Il medico scese a Roma e decise di accogliere il rifiuto di Welby. Dopo essersi accertato delle volontà del paziente, Riccio, scollegò il respiratore e accompagnò Welby tramite sedazione alla morte, alleviando così ogni sofferenza. Questo gesto gli costò l’accusa di reato di omicidio del consenziente, dal quale verrà poi definitivamente prosciolto l’anno successivo. 

La sentenza di proscioglimento è stata sostenuta dal dettato costituzionale secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. I giudici riportarono anche l’art. 13, secondo il quale “la libertà personale è inviolabile “, desumendo da ciò il diritto all’autodeterminazione. Quindi il medico ha solo adempiuto ad un dovere, mentre il paziente ha esercitato un suo diritto costituzionalmente garantito. 

In conclusione, è importante riconoscere come sia stata la presenza di casi eclatanti come questi a scuotere la legislatura italiana che, per vuoti normativi, precludeva dei diritti già garantiti. Tutte queste esperienze sono state fondamentali in quanto, grazie alla ripercussione mediatica hanno favorito la promulgazione di nuove leggi, come ad esempio la legge 219 sul consenso informato e le DAT (disposizioni anticipate di trattamento). Tutte queste tematiche di cui si è discusso, per quanto complesse e apparentemente solo astratte, sono invece estremamente attuali e concrete e purtroppo, non adeguatamente conosciute all’interno della nostra società. 

Giovanni Paissan

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