Ecologia Economia e Politica

Settore tessile e acqua, impatti e soluzioni di un rapporto difficile

Settore tessile e acqua, impatti e soluzioni di un rapporto difficile

Consumo di acqua, suolo e inquinamento di fiumi e mari. Il settore del tessile e dell’abbigliamento ha un problema con l’ambiente, in particolare con l’acqua. Infatti, la filiera consuma acqua in tutto il processo, dalla coltivazione del cotone al lavaggio dei capi finiti, ed è tra i principali responsabili dell’inquinamento idrico.

Il report A new textiles economy: Redesigning fashion’s future della Ellen MacArthur Foundation aggiunge profondità al problema. L’abbigliamento da solo consuma acqua dolce per due terzi dell’intera industria tessile. Quindi, come affrontare il problema? Abbandonare il modello produttivo lineare e puntare sull’economia circolare può essere una soluzione. Questo passa dalla possibilità di risparmiare e riutilizzare l’acqua nelle diverse fasi della produzione al consapevolizzare il consumatore finale.

L’impatto del settore tessile sull’ambiente e la difficoltà nel sensibilizzare

L’acqua dolce disponibile sul pianeta è pari al 2,5% dell’acqua complessiva, e per questo è una risorsa estremamente preziosa. Secondo le stime pubblicate dalla European Environment Agency (EEA) il settore tessile consuma ogni anno 104 metri cubi d’acqua dolce a persona.

Inoltre, il 20% dell’inquinamento idrico sarebbe dovuto ad attività legate al tessile. Quando i clienti lavano i capi finiti, le microfibre che si staccano si disperdono nell’acqua e si riversano poi in mari e oceani.

Va poi considerata la difficoltà nel sensibilizzare il consumatore finale in merito a consumi e inquinamento idrico. Questa è legata specialmente a due aspetti: trasparenza dei marchi e distanza geografica dei processi di produzione dal consumatore medio finale.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il Fashion Transparency Index 2022 rileva che su 250 marchi di moda globali, solo l’11% pubblica i risultati dei test sulle acque reflue dei propri fornitori. Inoltre, solo il 25% dei brand afferma di condurre valutazioni sui rischi legati al consumo all’acqua nella propria catena di approvvigionamento.

Per quanto riguarda la seconda problematicità, l’EEA rileva che la maggior parte delle pressioni e degli impatti legati al consumo di abbigliamento, calzature e prodotti tessili per la casa in Europa si verifica in altre regioni del mondo. In particolare, l’85% dell’utilizzo di materie prime, il 92% dell’utilizzo di acqua, il 93% dell’utilizzo del suolo e il 76% delle emissioni di gas serra vengono effettuati al di fuori dell’Unione europea.

La soluzione? Circolarità nella produzione e nel consumo di acqua

Anche se per molto tempo l’acqua non è stata una priorità per l’industria dell’abbigliamento e del tessile, oggi è possibile individuare aziende che portano avanti strategie idriche interne e impegni pubblici sulla qualità dell’acqua per affrontare questi rischi.

È il caso del Consorzio italiano implementazione Detox (CID), nato nel 2010 sotto la guida di un gruppo di 20 aziende, in collaborazione con Confindustria Toscana Nord. Queste hanno deciso di aderire agli impegni della campagna Detox di Greenpeace. L’iniziativa punta a spingere i brand della moda a lavorare in sinergia con i propri fornitori, per rendere la propria filiera produttiva eco-sostenibile.

Attraverso la collaborazione con il depuratore ambientale gestito da GIDA (Gestione impianti di depurazione acque), le aziende che hanno aderito al CID raccolgono le acque derivanti dalle lavorazione tessili del distretto tessile di Prato. Una parte di questa acqua viene depurata e poi reimmessa nel sistema di produzione. In questo modo è possibile ridurre il consumo e l’inquinamento dell’acqua. Infatti, collaborando con l’ente che gestisce la depurazione, il consorzio ha modo di monitorare in modo costante lo stato delle proprie acque.

La circolarità della produzione non dipende però esclusivamente da chi opera nel settore tessile, ma ogni persona può contribuire a ridurre il proprio impatto. Esistono infatti due approcci principali alla governance dei problemi, uno statale e uno che prevede l’autoregolamentazione spontanea nel settore privato.

Come si raggiunge l’obiettivo, nel secondo caso? Le possibilità sono due: o si attuano collaborazioni come quella tra Cid e Greenpeace, dove è fondamentale il monitoraggio da parte della società civile. Oppure creando un “armadio consapevole”. Per farlo, è importante rivolgersi a una filiera sostenibile come quella dell’usato o, ancora meglio, comprare meno, valorizzando i capi che si hanno già a disposizione.

Giovanni Beber

Foto copertina di Davide Iori, editing LUMEN slowjournal

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