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In Italia quasi nessuno si preoccupa delle carceri

Abbiamo appena superato una campagna elettorale che a molti di noi ha lasciato dell’amaro in bocca per diversi motivi, senza menzionare il risultato stesso delle votazioni. 

Sono tanti i temi di cui si sarebbe dovuto parlare e a cui nessun partito ha nemmeno lontanamente accennato. Sono tante le persone invisibili passate totalmente inosservate durante comizi impregnati di superficialità e armati solo di vuoti slogan di bandiera.

Tra gli invisibili d’Italia ci sono anche i detenuti delle nostre carceri, vittime di un’indifferenza che li relega alla condizione di persone di seconda categoria e li priva dei più basilari diritti per una vita dignitosa.

“Nei primi otto mesi del 2022, 59 persone si sono tolte la vita in carcere. Più di una ogni quattro giorni.” Così apre il nuovo rapporto sui suicidi in carcere nel 2022 realizzato dall’Associazione Antigone, onlus che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Numeri tremendi che espongono un problema che l’ultima campagna elettorale ha tenuto consapevolmente sullo sfondo: il sistema penitenziario italiano. 

Non ci sono mai stati nei primi due terzi dell’anno tanti suicidi come nel 2022.

Un dato di per sé allarmante, ma ancora più grave se considerato in confronto al tasso di suicidi generale nella popolazione italiana. 

Il nostro Paese può vantare numeri tra i più bassi a livello europeo, con 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti, ben inferiore ad altre realtà europee come la Francia (1,38) e la Germania (1,23). Ristretti Orizzonti, una rivista di cultura e informazione dalle carceri, ha stimato che nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere.

Dai dati raccolti da Antigone, due fattori dovrebbero far riflettere e indirizzare scelte politiche che risultano urgenti ed estremamente necessarie. 

Il primo è che almeno 18 delle 59 persone decedute soffrissero di patologie psichiatriche. Alcune diagnosticate, altre presunte e in fase di accertamento. Non un dato che stupisce, dal momento che in generale in carcere la presenza di persone con disagi psichici è molto alta. 

In molti casi il personale delle strutture penitenziarie denuncia con forza la significativa presenza di detenuti affetti da patologie psichiatriche che necessiterebbero di strutture specializzate disposte a prenderli in carico e di risorse adeguate. 

La risposta dello Stato sembra però andare nella direzione opposta. Nel 2014 il DAP (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia) ha estromesso 450 criminologi e psicologi penitenziari. Professioni che occupano un posto di primo piano nella difficile gestione dell’attuale popolazione carceraria, sia nel campo della prevenzione dei suicidi e degli atti di autolesionismo, sia per l’altrettanto essenziale attività di osservazione e trattamento dei detenuti.

Decisione che va controcorrente anche al rispetto dell’articolo 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute assicurato ad ogni persona indipendentemente dalla condizione di libertà o detenzione. 

Il secondo dato allarmante è che l’Italia detiene il “record” del tasso di sovraffollamento penitenziario in Europa. Il numero ufficiale di detenuti totali in Italia è di circa 53.637, a fronte di 50.779 posti disponibili, con un rapporto ufficiale di sovrappopolazione intorno al 105,6%. Ma i dati reali sono molto più sconfortanti, come ha sottolineato il rapporto di Antigone, i posti realmente disponibili in tutte le carceri italiane sono 47.445, il che significa che il rapporto reale di sovrappopolazione è di circa il 113,1%. 

Nel 2021, il carcere di Taranto è stata la struttura più sovraffollata d’Italia, con un’occupazione al 196,4% della sua capacità, mentre il secondo è stato quello di Brescia, con un livello di occupazione di circa il 192%.

Non è difficile immaginare come tali condizioni di vita siano insostenibili, specie se chi è costretto a sopportarle lo fa per lunghissimi periodi di tempo e con poche o nulle prospettive di miglioramento. Uno stato civile dovrebbe garantire condizioni umane nel rispetto della dignità dei detenuti, al fine di ottenere una rieducazione efficace (peraltro garantita dall’articolo 27 della Costituzione) e ridurre il rischio di recidiva, con potenziali conseguenze positive in termini di aumento della sicurezza sociale.

Dati che questo nuovo governo “Pronto a ridare #sicurezza alle nostre città” farebbe bene a tenere a mente. 

La priorità dovrebbe essere il potenziamento delle misure alternative alla detenzione nonché la necessità di ampliare la categoria degli aventi diritto a tali misure: non un modo che permette ai rei di cavarsela impunemente, ma un mezzo volto proprio a realizzare la funzione rieducativa sancita nella nostra Costituzione.

Manuela Lucianer

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