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Liberi di volere

La questione della libertà del proprio agire ha attanagliato l’uomo almeno da quando ha coscienza di sé e delle proprie azioni. Nello scorrere del tempo poi, varie posizioni si sono succedute o contrapposte, le une rette dai sostenitori di un pieno libero arbitrio, le altre dai suoi detrattori; ma non sono mancate nemmeno posizioni intermedie e di maggior equilibrio, come quella degli stoici, che, consapevoli della forte incidenza di fattori incontrollabili sulla vita umana, ritenevano ugualmente possibile per l’individuo adeguarsi a ciò che il destino gli avrebbe riservato – e vivere così felice e saggio – oppure opporvisi e annegare nei propri dolori.

Al giorno d’oggi questa tematica è divenuta di particolare interesse anche per le neuroscienze e in generale per tutti quegli studi, nei quali si indagano i processi cognitivi e volitivi della psiche umana. Così, se da un lato si è giunti a scoprire che talvolta i nostri sensi ci ingannano attraverso percezioni errate o distorte della realtà, dall’altro si è anche riusciti a dimostrare che non sempre la nostra volontà è libera e che anzi talvolta parrebbe essere soltanto una sorta di illusione, creata dalla nostra mente immediatamente dopo il compimento di un determinato gesto. E se invero sul primo punto non ci si dovrebbe sorprendere molto, poiché della fallibilità dei nostri sensi esiste una letteratura millenaria, sul secondo è quanto mai lecito soffermarsi ad esprimere qualche considerazione.

Infatti ciò che più interessa non è il fatto che la volontà possa talvolta essere inficiata da errate cognizioni della realtà e quindi non risultare genuina, ché è un fatto abbastanza risaputo, come si può desumere anche dal nostro ordinamento giuridico: si pensi in materia civile all’annullamento del contratto per vizi della volontà (art. 1427 cod. civ.: in particolare per dolo ed errore, in quanto la violenza forse presuppone proprio una piena comprensione di sé e del contesto per sortire i propri effetti) o in materia penale all’errore sul fatto che costituisce il reato (art. 47 cod. pen.), che esclude la punibilità del soggetto agente, ma lascia comunque aperta la strada alla punibilità per colpa, se possibile, sottolineando ancora una volta come la genuinità dell’elemento volitivo sia condizionata anche dalla percezione sensoriale.

Ciò che dunque è in realtà più intrigante è la possibilità che non esista proprio alcuna libertà di volere rispetto ad azioni caratterizzate da un breve lasso temporale tra l’apparente decisione di porre in essere un determinato comportamento e la sua effettiva realizzazione. Esse, per esempio, possono consistere nella scelta di un determinato prodotto al supermercato o nel compimento di un piccolo gesto quotidiano, come spegnere la sveglia. Se poi da un lato è proprio chi ha condotto siffatti studi ad ammettere che risulta difficile capire la reale portata del fenomeno e quindi l’incidenza di ciò sulla totalità delle nostre scelte, dall’altro si aprono comunque delle questioni di non secondaria importanza.

Infatti la possibilità di muovere un giudizio positivo o negativo nei confronti di un qualsiasi comportamento umano nasce dal presupposto che esso sia stato in un certo modo deciso e voluto: non avrebbe alcun senso riconoscere a qualcuno di avere agito bene (o rimproverargli di avere agito male), se costui fosse stato totalmente vincolato nei propri gesti. Ciò equivarrebbe a dire ad un sasso «bravo, ché sei lì».

Tuttavia è proprio la possibilità di esprimersi in tal senso a costituire il fondamento di un qualsiasi sistema morale e di valori, che dunque in assenza di libero arbitrio risulterebbe quantomeno superfluo. La stessa questione si potrebbe poi riportare al mondo del diritto, in particolare a quello penale, in cui essa dovrebbe porsi a confronto con il senso stesso della pena. Nel tempo questo è spesso stato visto in un’ottica retributiva, in cui essa rispondeva ad un’idea di giustizia assoluta e consisteva in una reazione punitiva ad un male compiuto: un antichissimo esempio ne è la legge del taglione. In tempi più recenti, pur non essendo stata abbandonata da tutti una tale impostazione, le teorie giustificative della pena si erigono su altri argomenti ed in particolare sulla sua funzione in chiave general-preventiva e special-preventiva.

Per la prima, la risposta punitiva dell’ordinamento ad un certo fatto illecito si giustifica in un’ottica di deterrenza verso tutti i consociati, mentre per la seconda essa dovrebbe portare ad evitare che l’autore dell’illecito ricommetta gli stessi fatti, magari proprio attraverso quella rieducazione, che tanto vorrebbe la nostra Costituzione. Tuttavia, se si negasse il libero arbitrio, l’intero sistema entrerebbe in crisi. Una funzione rieducativa della pena non avrebbe alcun senso, perché non ci sarebbe nulla da rieducare, se il fatto non fosse stato voluto; nemmeno la deterrenza sortirebbe poi un qualche effetto, potendo essa incidere solo su scelte libere; infine una risposta punitiva assoluta in senso retributivo perderebbe qualsiasi giustificazione, dovendosi fondare comunque almeno su un giudizio morale, che tenga conto della possibilità di un comportamento alternativo.

Non di facile soluzione sono dunque le problematiche che si stagliano all’orizzonte, attendendo che la scienza ci offra nuove conoscenze in merito, magari capaci di ribaltare completamente la questione. Nel frattempo, non resta che cercare di riempire in profondità il nostro io di esperienze e studio, per renderci così (forse) capaci di comprendere il grado di libertà nelle nostre scelte e fuggire quelle che tali non sono.

Filippo Frisinghelli

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